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mercoledì 15 luglio 2015

I tre filosofi di Giorgione

di Marcello Vecchio

Tre filosofi
Immagine tratta da Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Tre_filosofi#/media/File:Giorgione_029.jpg)

Il quadro " I tre filosofi" venne dipinto da Giorgione intorno al 1505, su commissione di Taddeo Contarini. Taddeo Contarini, Gerolamo Marcello e Gabriele Vendramin erano tre giovani nobili veneziani che commissionarono a Giorgione alcune tele ispirate all’esoterismo e all’alchimia. Di certo erano loro ad esporre i soggetti, mentre toccava poi al pittore metterli su tela. Sappiamo anche che Taddeo Contarini prendeva in prestito libri di astrologia e filosofia dalla biblioteca del cardinale Bessarione e proprio uno dei tre personaggi mostra un foglio coperto di calcoli astronomici.

Sull’interpretazione del quadro molti si sono sbizzarriti. Marcantonio Michiel, nel 1525, li definisce "li tra phylosophi". In un inventario del 1659 viene definito come "I tre matematici". Mechel, in un inventario del 1783 li definì " I tre Magi che aspettano l’apparizione della stella cometa". Nell’Ottocento e nel Novecento vennero definiti, di volta in volta, come Marco Aurelio insieme ad altri due filosofi; figure allegoriche dell’antico aristotelismo, l’aristotelismo averroistico (l’uomo col turbante) e la Scienza Nuova. Qualcuno ha identificato l’uomo più giovane con Copernico e gli altri come astronomi antichi: Tolomeo e Al Battani.

Prima di addentrarci nello studio del quadro, però, facciamo una premessa: sul finire del Quattrocento l’Arte Reale era diffusissima. Molti suoi cultori sono sconosciuti perché a noi mancano moltissimi documenti. Non dimentichiamo che ci furono persecuzioni tremende da parte della Chiesa contro coloro che, con spirito libero, indagavano i misteri della Natura. E non fu solo la Chiesa a farlo, anche loro occasionali lacché seguirono l’esempio. Valga per tutti la proibizione promulgata in Francia da Francesco I , nel 1537, che divorò moltissime opere alchemiche ed ermetiche.

Da qui, come già era avvenuto in passato (vedi ad esempio la poesia dei Fedeli d’Amore), la necessità di simbologie dietro le quali occultarsi, sempre più personalizzate e spesso ormai per noi incomprensibili. Federico Zeri afferma, secondo me a ragione, che ogni momento storico è irripetibile e irrimediabilmente perduto, giacché non sarà mai possibile per chi viene dopo immedesimarsi completamente in quello che c’era prima. Il passato è passato, morto, e con esso gran parte di ciò che allora viveva nella mente e nel cuore delle persone.

Tuttavia è possibile trovare delle tracce... e tutto in questo capolavoro punta verso l’alchimia.

Focalizziamo l’attenzione sul personaggio che Lensi Orlandi identifica con Basilio Valentino. Forse è stato ispirato in questa identificazione da una figura che ha visto in un libro e che egli stesso descrive così:"L’edizione de Le Dodici Chiavi della Filosofia, pubblicata a Parigi dal

Canseliet nel 1956, riproduce sulla copertina un’antica stampa dove Frére Basile Valentin in abito di benedettino col cappuccio in testa, sorregge una bilancia con le coppe in equilibrio, una piena d’Acqua e l’altra piena di Fuoco e sotto il braccio destro stringe un Libro Chiuso a conferma dell’ermetico significato dell’immagine. Quella bilancia allude ai due giudizi ciclici dell’umanità, il primo realizzato con l’Acqua del Diluvio, il secondo col Fuoco preannunziato dal Battista."

Basilio Valentino richiama subito alla mente l’acrostico VITRIOL, sicché se nel quadro di Giorgione è celato un messaggio alchemico (cosa secondo me indubitabile), non è affatto assurdo che l’ipotesi di Lensi Orlandi sia giusta.

Ciascuno di noi nasconde dentro di sé la propria Pietra Occulta e ogni Artista, nel segreto del proprio laboratorio alchemico, lavora, distilla, rettifica, separa il pesante dal sottile per conquistarla. Molti sono gli strumenti che ci aiutano a percorrere la via, ma il vecchio saggio ha nella mano sinistra un compasso, un utensile i cui bracci possono essere divaricati in infiniti angoli, da 0 a 360 , ad abbracciare il punto e il cerchio, simbolo della padronanza assoluta dei propri mezzi, della propria personalità, della propria mente.

L’altra mano è occupata da una pergamena dove sono visibili il Sole e la Luna. Ritorna subito in mente M.Maier quando scrive: "il Sole è suo padre, la Luna sua madre". Non vi poteva essere un richiamo così forte all’alchimia, escludendo naturalmente ciò che si legge nella veste dell’uomo col turbante.

Eravamo rimasti alla figura che, secondo alcuni, potrebbe essere BasilioValentino. Dico potrebbe perché altre ipotesi sono altrettanto verosimili. Il vecchio che tiene in mano la pergamena (dove alcuni hanno visto un’eclissi di sole, simbolo di congiunzione mistica dell’anima (Luna) con Dio (Sole), lasciando nell’oscurità il corpo (Terra)) ha svelato alcune cosa all’esame con i raggi X. In una prima stesura la figura aveva sul capo un diadema a forma di raggi solari e ciò ha fatto asserire che potesse trattarsi di Mosè (Calvesi - Il mito dell’Egitto nel Rinascimento), ma un copricapo del genere a me richiama subito in mente Zeus. Il fatto che poi Giorgione ci abbia ripensato e sia passato a una figura vestita di un saio, farebbe immaginare un intervento del committente, quel Contarini così versato in ermetismo e alchimia.

Già, alchimia.... è innnegabile che il motivo conduttore del quadro sia proprio l’alchimia, non fosse altro per un piccolo, minuscolo ma enorme particolare, che il pittore ha abilmente celato pur mettendolo in primo piano, sotto i nostri occhi, dando corpo ai numerosissimi richiami dei Saggi che più volte hanno affermato che solo chi ha occhi per vedere può davvero vedere.

L’uomo col turbante, al centro, ha un lungo vestito rosso e grigio. Sul bordo di questo, proprio sopra il piede destro, si legge una scritta sul ricamo: ALCH.

Se vi fosse qualche dubbio sulle intenzioni di Giorgione, credo che questo particolare li abbia fugati definitivamente.

Nel Rinascimento era comunemente accettata una tripartizione della vita del Saggio in attiva, contemplativa, voluttuosa. Dante Alighieri ammetteva soltanto una vita attiva e una contemplativa, ma quasi tre secoli erano passati dalla sua morte e la filosofia del Rinascimento era ormai pregna di Platone, Macrobio e Plutarco. Ficino, in una lettera a Lorenzo de’ Medici, poteva scrivere: "...

Non esistono ragionevoli dubbi che vi sono tre tipi di vita: contemplativa, attiva, voluttuosa...".

La vita attiva ha il suo culmine nell’impegno nelle cose del mondo, la vita contemplativa nella teologia, la vita voluttuosa occupa il mezzo e riguarda l’amore.

I tre filosofi possono anche interpretare questi ruoli.

Si hanno altri esempi famosi in opere letterarie e non di questa tripartizione. Nell’enigmatica Hypnerotomachia di Francesco Colonna, pubblicata nel 1499, i tre tipi di attività sono rappresentate come tre porte scavate nella montagna e fra queste il protagonista, Polifilo, è chiamato a scegliere.

Per tornare ai filosofi, posto che l’ipotesi della rappresentazione delle "vite" sia corretta, identificheremmo il vecchio come rappresentazione della teologia ( contemplativa), il più giovane come vita attiva e il filosofo col turbante, in mezzo, l’alchimia, come la vita voluttuosa, cioè Amore.

Dunque l’alchimia è Amore?

Non so se tratta di una coincidenza singolare , quella che un mio amico chiamerebbe sincronicità (ma io propendo per la non casualità), ma giorni fa qualcuno - al momento non ricordo chi, scusate - ha postato nella sezione "file" del gruppo una foto de "I coniugi Arnolfini" , proprio mentre si parlava di Giorgione.

Il dipinto è stato commentato, tra l’altro, da Federico Zeri in "Dietro l’immagine", ma ero certo di aver letto di questo quadro da un’altra parte, anche se non mi tornava in mente dove.

Oggi me ne sono improvvisamente ricordato. Trascrivo. " ... Lo sviluppo dell’ego ha portato a una nuova sensibilità per la libertà individuale, libertà dai lacci sia religiosi sia politici. I primi a intravedere i germi di questa nuova concezione ancora in nuce furono i poeti e gli artisti, i quali hanno avuto antenne particolarmente sensibili a cogliere i mutamenti spirituali... La lunga e famosa firma apposta da Jan Van Eych sul dipinto I coniugi Arnolfini, ora alla national Gallery di Londra, non rappresenta soltanto il nome dell’autore del quadro, ma ne ricorda il ruolo di testimone di nozze: il pittore dice :"Io c’ero". Ma non sempre i segni dell’ego erano così elaborati e non sempre si trattava di una firma..."

Ricordo che il termine di ego in senso esoterico è diverso da quello psicologico.

Il discorso continua in nota : "...la firma completa del pittore "Johannes de Eyck fuit hic,1434" compare su un documento legale , mentre nello specchio si vede la sua immagine...E forse non è un caso, che è il marchio dell’ego, l’artista compaia riflesso in uno specchio che ha la forma dello zero. La firma che l’autore appone alla sua opera è il segno di un cambiamento di visione: ora egli non dedica più il suo lavoro interamente a Dio, ma a se stesso, all’ego". Queste parole sono tratte da "L’iniziato", di Mark Hedsel.

L’ego, esotericamente inteso, è la scintilla della divinità, della Mens divina che si è immersa nella materia. Finché ha a che fare con il mondo materiale, l’ego deve cercare la strada per guadagnare il divino. La materia, l’uomo, è dotato, secondo le dottrine esoteriche, di tre corpi: fisico, attività cellulare; eterico, sede della memoria; astrale, sede delle emozioni, desideri, ecc...

L’ego, non a caso, è raffigurato nella letteratura ermetica come un cigno o un pellicano dotato stranamente di tre ali.

Orbene, trasferiamo questo discorso ai tre filosofi di Giorgione e probabilmente troveremo qualche altro significato nascosto.

Finora ci siamo occupati soprattutto di Basilio Valentino (o del supposto tale), ma ora dedichiamo uno sguardo anche al personaggio col turbante. La scritta ALCH che si scorge sul ricamo del bordo inferiore del vestito lascia ben pochi dubbi sull’allegoria del personaggio. Lensi Orlandi propone che si tratti di Djabir Ibn Hajjan, meglio conosciuto come Geber, nato a Kufa sull’Eufrate, a sud di Babilonia, intorno all’ottavo secolo.

Potremmo definirlo un "alchimista spirituale" , se questo termine significa veramente qualcosa, giacché conosco persone che contestano vivamente questa denominazione dell’alchimia e affermano che l’alchimia deve essere necessariamente pratica. Torno dopo sull’argomento. Su Geber ci sono certamente indagini e scritti più approfonditi di questo mio, molto sommario.

Tuttavia una frase di questo alchimista mi ha colpito profondamente, una frase riportata proprio da Lensi Orlandi.

Trascrivo. "... Per Geber gli alchimisti avevano la certezza di raggiungere l’immortalità contraria alle intenzioni di Dio, per questo scrisse nel Libro della Misericordia:" Se Dio ha messo nell’uomo elementi contrastanti è perché ha voluto assicurare la fine dell’essere creato. Siccome non volle che ogni essere vivesse per sempre fuori di lui, inflisse all’uomo la differenza delle quattro essenze naturali che lo conduce alla morte con la separazione dell’anima dal corpo"."

L’autore prosegue affermando che se si riuscisse a riequilibrare le essenze naturali dopo averle scomposte, l’uomo non potrà morire e potrà raggiungere uno stato inalterabile. A tanto si arriverebbe non con i libri o il ragionamento ma solo con un salto della mente, con un "impeto dello spirito". Il punto che mi ha dato da pensare è quel "contraria alle intenzioni di Dio". A parte il fatto che è piuttosto difficile per un umano capire le intenzioni di Dio :-), l’alchimia si troverebbe ad essere, così intesa, un’operazione contro natura e contro Dio, situazione che mi sembra esattamente all’opposto dell’idea alchemica. Forse questa è solo un’interpretazione di Lensi Orlandi e non il pensiero originale di Geber.

Più sopra ho accennato all’alchimia pratica.

Confesso che fino a qualche tempo fa ero piuttosto in dubbio sulla reale possibilità di un’alchimia pratica, nonostante avessi letto (molti anni or sono) l’affascinante " Il mattino dei maghi" e fosse rimasta dentro di me una specie di sospensione del giudizio. Volente o nolente io sono figlio dell’idea scientifica tramandata dall’illuminismo e, nel caso specifico, dalla chimica classica.

Oggi come oggi invece dubito delle bellissime teorie che tutto comprendono e tutto spiegano, salvo poi accorgersi, da parte degli scienziati, che la teoria non era proprio esatta al 100%. Prima della scoperta della fusione nucleare gli "scienziati" erano convinti che il sole fosse fatto di carbone incandescente e non riuscivano a capire come potesse bruciare per tanto tempo senza consumarsi. Ne "Il mattino dei maghi" è postulata, se non ricordo male, l’intervento di qualche forma di energia saltuaria e incostante che potrebbe dare la spinta finale al processo e permettere la trasmutazione dei metalli. Il lunghissimo tempo necessario alla trasformazione dei metalli con metodo alchemico (a volte una vita intera), potrebbe essere proprio in rapporto a questo fenomeno incostante.

Detta così la cosa appare poco scientifica.

Però... però... non avevo mai sentito parlare prima di Piccardi. Giorgio Piccardi era professore di chimica-fisica all’università di Firenze ed è morto nel 1972. Fu emarginato dagli scienziati perché "eretico". Qual era il suo problema? Lo scaldabagno. Come eliminare le incrostazioni dal boiler? , questa fu la domanda che gli incasinò la vita. La soluzione che trovò era piuttosto ingegnosa. Si trattava di "attivare" l’acqua in una sfera di neon a bassa pressione, aggiungendo una goccia di... mercurio. La tecnica si dimostrò efficiente, però aveva un difetto: era incostante, ossia a volte funzionava benissimo e altre volte non aveva performance da capogiro. Dopo molte riflessioni Piccardi concluse che l’acqua fosse il prototipo dei "fenomeni fluttuanti" perché questo elemento, trovandosi in uno stato di equilibrio delicato, subisce l’influenza di tali e tanti FATTORI ESTERNI che l’esperimento alla fine non é facilmente PREVEDIBILE né RIPRODUCIBILE in modo costante!

Detto in altre parole Piccardi dette bel colpo alla sperimentazione scientifica che, ricordiamolo, si basa proprio sulla prevedibilità e riproducibilità dei fenomeni.

Ho letto di Piccardi su "Il genio incompreso" di Federico Di Trocchio, un bel libro sulle bufale e sul dogmatismo della scienza. Se si ammette con Piccardi la non costante riproducibilità dei fenomeni allora si può pensare che gli autori de "Il mattino dei maghi" non abbiano detto cose false. Perlomeno esiste la POSSIBILITA’ che abbiano ragione. Per non parlare , poi, di altre forme di energia ancora non ben conosciute (vedi fusione fredda), che ci indicano come siamo ben lontani dall’aver capito tutto.