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domenica 26 novembre 2023

La solitudine siderale di Julius Evola che sfida i secoli

tratto da "Il Giornale" del 31 Marzo 2014

Il lungo cammino attraverso Dada, esoterismo, Tradizione di un filosofo incompreso e rifiutato. Oggi come allora

Marcello Veneziani


«Ho dovuto aprirmi da solo la via... Quasi come un disperso ho dovuto cercare di riconnettermi con i miei propri mezzi ad un esercito allontanatosi, spesso attraversando terre infide e perigliose». Così Julius Evola (1898-1974), descrive nella sua autobiografia la solitudine siderale del suo cammino. Mezzo secolo fa Evola scese dal cavallo altero dell'impersonalità e si raccontò in un'autobiografia intellettuale che intitolò con spirito alchemico Il cammino del cinabro. Ora, a quarant'anni dalla sua morte, il testo rivede la luce nelle Opere di Evola (Mediterranee, pagg. 438, euro 32,50), curate da Gianfranco de Turris, aiutato da Giovanni Sessa e Andrea Scarabelli, arricchito di note, notizie e altri scritti. La prefazione è di Geminello Alvi. Curioso l'inserto fotografico con immagini di Evola mai viste, per esempio da bambino coi suoi genitori.

Evola racconta la sua vita attraverso le sue opere e i suoi snodi fondamentali: l'esperienza della Grande Guerra, poi il periodo di pittore Dada, quindi la fase filosofica, poi il suo percorso esoterico, infine il suo cammino nella Tradizione. E sullo sfondo, i suoi rapporti con gli artisti e gli iniziati, gli scrittori e i filosofi del suo tempo, le trasgressioni, il controverso rapporto col fascismo tra sostegno e dissenso, superfascismo e antifascismo, e poi con i giovani della destra postbellica. C'è anche il capitolo scabroso del razzismo. Evola fu teorico di un razzismo spirituale che non piacque ai razzisti doc e ai nazisti ma gli restò addosso come il suo peccato originale. Non c'è in lui odio antisemita né alcun fanatismo, c'è perfino una dignitosa coerenza, riconobbe Renzo De Felice. Ma Evola prescinde totalmente dai fatti e dalla tragedia dello sterminio e si attesta solo sui principi; ciò infonde un tono astratto alle farneticazioni della razza, qui ridotte peraltro da lui a «una parentesi» nella sua vita e nella sua opera. Evola confessa di aver rasentato da giovane «l'area delle allucinazioni visionarie e fors'anche della pazzia» e «una specie di cupio dissolvi, un impulso a disperdersi e a perdersi».

Nelle pagine del Cinabro, a fianco del pensiero e delle opere, scorre la vita, la storia - arricchita dalle note dei curatori - gli ambienti a lui vicini e a lui avversi, le note ostili della questura ai tempi del fascismo, perfino la vicenda di un duello rifiutato da Evola per non abbassarsi al rango dello sfidante che però gli costò la rimozione del grado di ufficiale e gli impedì di partire volontario nella seconda guerra mondiale. Ci sono gli scontri con alcuni fascisti, c'è la sua fama di mago e c'è perfino l'accenno di Evola al Mussolini superstizioso: «Aveva un'autentica paura per gli iettatori di cui vietava che si pronunciasse il nome in suo cospetto». C'è la storia assurda del processo nel dopoguerra a un gruppo di giovani neofascisti in cui fu coinvolto un Evola del tutto ignaro e ormai paralizzato, vittima di un bombardamento a Vienna. C'è la cronaca della sua morte, l'11 giugno di 40 anni fa, quando si fece portare davanti alla finestra e morì in piedi, guardando al Gianicolo; e poi i funerali con la sua bara senza croce e senza corteo funebre, secondo le sue volontà, e le sue ceneri disperse tra le cime delle Alpi, che aveva amato e scalato.

Evola fu un mito già da vivente, avvolto in un alone di magia. In queste pagine aleggia un paradosso: un pensatore isolato e in disparte che incrocia nella sua vita e nella sua opera, gli autori, le correnti, gli eventi più salienti del Novecento. A questo paradosso ne corrisponde uno inverso sul piano del pensiero: Evola, fautore della Tradizione e del Sacro, fonda la sua opera su un Individualismo Trascendentale, non solo teorico e psichico ma pratico e magico. Per Evola la verità è solo «un riflesso della potenza: la verità è un errore potente, l'errore è una verità debole». Un relativismo imperniato sulla potenza, che ne decide il rango e il valore. «Essere, verità, certezza non stanno dietro ma avanti, sono dei compiti», non dei fondamenti. Grandiosi piani metastorici in nome della Tradizione, templi sacri, civiltà millenarie dell'Essere ma in piedi resta solo la solitudine stellare dell'Io. Solipsismo eroico. «Debbo pochissimo all'ambiente, all'educazione, alla linea del mio sangue - scrive Evola, sottolineando la sua estraneità alla tradizione cristiana, famigliare e patriottica - il mio impulso alla trascendenza è centrato sull'affermazione libera dell'Io». Anzi, avverte Evola, «non vi è avvenimento rilevante dell'esistenza che non sia stato da noi stessi voluto in sede prenatale». Siamo quasi all'autocreazione, al self made man metafisico. Resta sospesa nei cieli la domanda che qui si pone Evola: «Che cosa può venire dopo il nichilismo europeo?... Dove si può trovare un appoggio, un senso dell'esistenza, senza tornare indietro?». Evola rispose che l'unica soluzione era «essere se stessi, seguire solo la propria legge, facendone un assoluto». Ma non è proprio questa incondizionata libertà la punta più avanzata del nichilismo europeo, non è di questo individualismo assoluto che sta morendo la nostra civiltà? E se fosse l'Individuo Assoluto l'ostacolo estremo alla rivelazione dell'Essere?

Un titanico e aristocratico disdegno del mondo accompagna il racconto biografico di Evola. Ma ogni tanto si apre uno squarcio nel suo severo stile impersonale. Ad esempio quando riporta in queste pagine i giudizi lusinghieri sulle sue opere. Fa tenerezza notare che per lenire il suo isolamento Evola citi queste sporadiche e spesso modeste attenzioni alla sua opera. O quando sfugge al suo stoicismo imperturbabile qualche umana amarezza per il mancato riconoscimento del suo pensiero: «La grande stampa e la cultura ufficiale rimasero, e anche in seguito dovevano rimanere, sorde». Lo stesso Cammino del Cinabro, confessa nella nota d'esordio, fu scritto «nell'eventualità che un giorno l'opera da me svolta in otto lustri sia fatta oggetto di un'attenzione diversa da quella che finora le è stata concessa». Altri otto lustri sono passati dalla sua morte ma non sembrano bastati. La solitudine di Evola sfida i secoli.

mercoledì 22 novembre 2023

Evola, la guerra totale del pensiero

tratto da "Il Giornale" del 1 Giugno 2016

E' stato a lungo considerato un "cattivo maestro". In realtà fu filosofo originale e spirito non conformista: nuovi documenti fanno luce sui rapporti coi servizi segreti tedeschi, sul suo esoterismo e sulle teorie politiche

di Luca Gallesi


È inutile: nonostante la demonizzazione, che aumenta col passare degli anni, coinvolgendo chiunque abbia anche lontanamente avuto a che fare con il regime fascista, quelle vicende continuano a tenere banco. Se paragoniamo l'interesse suscitato dal Ventennio con la storia dei settant'anni posteriori, dobbiamo dedurre che gli anni tra le due guerre sono stati i più interessanti, almeno a giudicare dalla quantità di pubblicazioni, film, eccetera a tema.

Un contributo a capire meglio il fascino dei quegli anni terribili è offerto da un libro di Gianfranco de Turris: Julius Evola. Un filosofo in guerra 1943-1945 (Mursia, pagg. 340, euro 18), che scrive finalmente la parola fine su tutte le illazioni, spesso in mala fede e non di rado fantasiose, su alcune vicende che hanno riguardato uno dei più discussi pensatori italiani del '900. Tra i massimi esponenti italiani del movimento Dada, Giulio Cesare Andrea, più noto come Barone Julius Evola, è stato anche un importante filosofo propugnatore di un idealismo assoluto, un ardito esploratore delle cime abissali dell'esoterismo, un efficace divulgatore delle dottrine palingenetiche orientali, un originale teorico politico del tradizionalismo integrale, per essere poi, infine, superficialmente stigmatizzato come cattivo maestro, ispiratore del cosiddetto spontaneismo armato, quando non, addirittura, dello stragismo di Stato.

Pensatore isolato, anche se fu perno e catalizzatore del Gruppo di Ur, una delle più curiose esperienze spirituali del nostro '900, Evola si distinse come critico «da destra» durante il Ventennio mussoliniano per accreditarsi, nel dopoguerra, come teorico del neofascismo più intransigente, etichetta che pure gli valse nel 1954 una condanna per apologia di fascismo, poi amnistiata.

Pur occupandosi sostanzialmente del biennio 1943-45, il libro di De Turris tocca tutti gli argomenti citati, che si intrecciano nella biografia evoliana, avvincente come un thriller in cui maghi e spie, avventurieri e filosofi percorrono un'Europa distrutta, ridotta in rovine dai bombardamenti e prossima a scomparire tra le braccia dell'invasore sovietico o anglo-americano. Di quei tragici e appassionanti eventi, Julius Evola è protagonista e testimone: dopo il 25 luglio, che sorprende il filosofo per l'assoluta «mancanza di qualsiasi reazione dopo il tradimento, l'assoluta inerzia dei massimi esponenti del regime e della stessa Milizia (...) come una conferma di quella carenza di forze veramente temprate e salde dietro le strutture gerarchistiche e conformistiche, che purtroppo in più di una occasione era già venuta in evidenza», Evola si pone il problema «di vedere che cosa aveva resistito alla prova, (...) su quali elementi nuovi si poteva contare per mantenere, in forma adatta alle circostanze, le posizioni in ordine sia al problema interno politico italiano, sia alla continuazione della guerra dell'Asse». L'assassinio di Ettore Muti chiude definitivamente la porta a un ipotetico «controcolpo di Stato fascista», nel quale Evola sarebbe stato eventualmente coinvolto, e così il filosofo, a fine agosto 1943 parte verso il nord, in quella che egli definisce una «missione segreta». Pur non avendo mai aderito al Partito Nazionale Fascista, e nonostante la manifesta avversità di alcuni ambienti nazionalsocialisti, e in particolare quelli che facevano capo alla «Ahnenerbe», Evola mantiene stretti rapporti col settore controspionaggio dello SD, il servizio segreto tedesco, e si reca in Germania. Qui riprende i contatti con gli amici Roberto Farinacci e Giovanni Preziosi, con cui, nel quartiere generale di Hitler, il 14 settembre, insieme anche a Pavolini, Renato Ricci e Vittorio Mussolini, accoglierà il Duce, appena liberato dal commando di Otto Skorzeny dalla prigionia sul Gran Sasso.

De Turris ci guida, quindi, con testimonianze e documenti alla mano, lungo le intricate vicende che da Rastenburg si dipanano verso Berlino, poi Monaco, quindi nuovamente in Italia e infine a Vienna, dove Evola vive in incognito. Qui, Evola è impegnato su due fronti: sta per concludere una Storia segreta delle società segrete basata sui documenti dell'archivio di preziosi (opera e archivio che andranno perduti nei bombardamenti che lo coinvolgeranno personalmente), e soprattutto sta lavorando a porre le basi per un'attività politica e ideale che, dopo la sconfitta, avrebbe dovuto tenere in piedi «gli uomini tra le rovine». Intanto, sotto le rovine, e non metaforicamente, ci rimane lo stesso Evola, che il 21 gennaio 1945 «ha subito, a causa della caduta ravvicinata di una bomba», una lesione alla colonna vertebrale, come recita la cartella clinica che viene qui riportata per la prima volta, chiudendo definitivamente le molte illazioni sull'incidente che immobilizzò il filosofo per il resto dei suoi giorni.

Chiarito, per quanto possibile, il mistero sulle vicende legate alla fine della guerra, De Turris fornisce preziose informazioni anche su quello che accadde a Evola negli anni immediatamente successivi, raccontando, anche questo per la prima volta, di un soggiorno di qualche mese a Budapest, probabilmente in una clinica specializzata, e del rientro in Italia, seguito da una lunga degenza, prima a Bolzano, poi in provincia di Varese, poi a Bologna, per tornare, infine, nella casa natale di Roma, dove riallaccerà antichi rapporti di amicizia e si darà da fare per continuare, ora solo con la penna, quella «rivolta contro il mondo moderno» che rimane, al di là di ogni giudizio, la vera eredità di un filosofo che «in guerra» ci rimase per tutta la vita.

lunedì 27 dicembre 2021

JULIUS EVOLA COLPISCE ANCORA

tratto da "L'Opinione" del 26/02/2021

di Dalmazio Frau

Potremmo dire “chi non muore si rivede” con questa nuova antologia di racconti su Julius Evola appena edita da i tipi de L’Idrovolante, curata come indubitabilmente avviene da sempre, da Gianfranco de Turris con il cinematografico titolo de Il ritorno del barone immaginario. Quella precedente era uscita per Mursia Editore nel 2018 ed era appunto Il barone immaginario.

Questa nuova raccolta attesta innanzitutto un fatto che piaccia o meno, deve essere accettato senza se e senza ma, ovvero che la figura controversa, amata, odiata, criticata od osannata nella propria multiforme totalità, di Giulio Cesare Andrea Evola non lascia – e non potrebbe fare diversamente – indifferenti gli animi. Ecco allora l’Evola pittore dadaista, mago, orientalista, soldato e innumerevoli altre sue “manifestazioni” in una vita che per quanto qua “inventata”, nella realtà non ha nulla da invidiare all’immaginazione. Evola fu – è – tutto questo e ancora di più quindi ben si presta a diventare un “eroe da romanzo”, come avrebbe detto Cyrano de Bergerac.

I racconti che compongono la raccolta sono variegati e variati, certo non tutti – ma quasi – hanno incontrato il mio favore, per le ragioni critiche che dopo chiarirò. Detto questo, del tutto ininfluente comunque, restano invece degni di merito, nota e plauso alcune novelle sul Barone, a cominciare dall’ottima prova che ne dà Alberto Lombardo, certo fortificato da una sua lunga attenzione di studioso all’intera opera evoliana. Va detto che la caratteristica, forse a volte rasentante l’eccessiva didascalicità, dell’aderenza agli scritti e ai pensieri del “filosofo in guerra”, dell’ermetista e del ghibellino che fu Julius, è comune a tutti i narratori cimentatisi in quest’impresa e potrebbe fungere da ulteriore sprone a coloro che magari si avvicinano per la prima volta al corpus letterario e sapienziale dello scrittore, ma al tempo stesso rischia di diventare troppo referenziale ad un esclusivo circuito di estimatori, come avviene nel racconto erotizzante di Guido Andrea Pautasso. Il dèmone della vanità del voler fare a gara, con citazioni e rimandi, a chi è più colto, si nasconde sempre – in maniera non eccelsa – tra molte delle righe di alcuni racconti, ma è un peccato “veniale” suvvia, non facciamone questioni di stato. Nessuno nasce imparato, men che meno chi si sopravvaluta anche come scrittore.

Tema analogo, quello della magia erotica, trattato anche da Vitaldo Conte – del resto l’argomento dell’Eros e della Magia Rossa sono da decenni la cifra della sua produzione – nel suo racconto che tratta di un Evola anziano, immerso nei propri ricordi ma non per questo meno attivo nell’arte della conoscenza d’amore. Julius Evola – e non lo dico in maniera negativa anzi – diventa così un “GI Joe”, un modello posizionabile e multiruolo, iper-adattabile alle sfumature immaginarie di ciascun scrittore, uscendo in tal maniera dalla propria autonomia e identità per diventare un archetipo fantastico, avventuroso, erotico come soltanto una persona realmente vissuta avrebbe potuto fare.

L’altro racconto che voglio segnalare favorevolmente è quello di Alex Voglino, che mostra e dimostra tutta la sua antica e migliore capacità di narratore fantastico avventuroso, ed è forse al proprio meglio quando lascia le confortevoli brughiere arturiane o tolkieniane a lui tanto care. Così come piacevolmente dotta e quasi affettuosamente reverenziale, così come si farebbe verso un Maestro, nei confronti del Barone, è la storia ermetico-egizia raccontata da Luca Valentini.

Oltre questi comunque sono validi anche gli altri racconti, tra reminiscenze lovecraftiane e spruzzate d’umorismo che male non fa, in un variopinto affresco come se fosse più un mosaico bizantino frammentatosi nel corso dei secoli e rimesso in sesto, in un restauro per tutti, della vita sognata di una delle figure ancora adesso più originali e interessanti non soltanto del mondo della Tradizione, ma di quello che è stato l’intero milieu novecentesco. E se con il nome di Julius Evola – ancorché ricordato limitatamente solo come filosofo – sta ancora in solitario e aristocratico ritiro a campeggiare su una targa commemorativa a Sutri, proprio a pochi passi dal mitreo locale, quasi un cippo dimenticato ed evocante un “mago e milite ignoto”, questa seconda prova su di lui aggiunge un ulteriore tassello al suo ricordo che non muore. Tuttavia, ci chiediamo maliziosamente, se ci sarà – come si usa nelle migliori saghe – un terzo capitolo, e che magari potrebbe essere intitolato “Il barone immaginario colpisce ancora”. Hai visto mai…

(*) Autori vari, “Il ritorno del barone immaginario”, a cura di Gianfranco de Turris, Idrovolante Edizioni, pagine 290



sabato 3 agosto 2019

UN’INTRODUZIONE A JULIUS EVOLA

tratto da L'Opinione del 18 ottobre 2017

di Paolo Ricci

Quella di Julius Evola è stata una figura scomoda nel panorama filosofico e intellettuale italiano, di questo si è già scritto (e ogni tanto se ne scrive) abbastanza. Ma al contempo la sua personalità, eclettica e di grande spessore, stimola la riflessione su numerosi aspetti: dal mondo contemporaneo alla spiritualità, dall’industria culturale all’esoterismo.

Il cammino del cinabro (edizioni Mediterranee) è una specie di vademecum per affrontare Evola e la sua complessa speculazione. Il filosofo ha prodotto numerosi titoli, molti dei quali spesso messi all’indice per le idee forti. Nel cammino del cinabro Evola si racconta proponendo una biografia attraverso le sue opere e il confronto con altre personalità della sua epoca. Tra le tante iniziative a cui Evola prese parte si può ricordare il Gruppo di Ur. Fondato dal matematico Arturo Reghini e dal filosofo Colazza, entrambi esoteristi, vollero che proprio Evola fosse il primo direttore della rivista Ur. Il Gruppo intendeva trattare le discipline esoteriche e iniziatiche con serietà e rigore, riferendosi a fonti certe e con spirito critico. Ambiti i suddetti molto cari a Evola. Questi si dedicò poi all’esplorazione delle origini della Tradizione studiando e trattando autori come Bachofen, Guénon, Wirth, Zolla e altri.

Nel volume sono riportate molte lettere scritte da Evola e diversi documenti che lo riguardano, testimonianze di una vita operosa e sempre intellettualmente stimolata da numerosi interessi da cui scaturirono riflessioni complesse ed eterogenee, come quella sul mondo moderno: “È più o meno noto che mentre l’uomo moderno ha creduto e, in parte, tuttora crede al mito dell’evoluzione, le civiltà antiche quasi senza eccezione e perfino le popolazioni selvagge riconobbero invece l’involuzione, il graduale decadere dell’uomo da uno stato primordiale concepito non come un passato semi-scimmiesco ma come quello di un’alta spiritualità (...)”, così Evola si rifà a Esiodo proponendo una riflessione sulle quattro età del mondo. E ancora sulla civiltà del tempo e sulla civiltà dello spazio, passando per le vite dei santi, i Misteri, il “Bene” e il “Male”, metodi e spunti.

Il cammino del cinabro (i cui riferimenti al mondo ermetico sono evidenti) permette di comprendere la nascita e il percorso delle tesi evoliane così come la “visione del mondo” di questo filosofo sui generis che ha sempre mantenuto (nonostante tutto) una coerenza di fondo lungo tutto il suo personale cammino.


mercoledì 6 giugno 2018

Il Barone Immaginario - La vita di J. Evola in diciotto racconti

sabato 16 giugno dalle ore 17:00 alle ore 19:00



Presentazione del volume collettaneo «Il Barone immaginario» (Mursia, Milano 2018)

Intervengono:
Andrea Scarabelli, vicesegretario della Fondazione J. Evola
Marco Cimmino, autore
Augusto Grandi, autore

Per informazioni: info@ritteredizioni.com



Edizioni Ritter

Via Maiocchi, 28, 20129 Milano

lunedì 4 giugno 2018

Conferenza Tradizione Romana a Vercelli

Libreria dello Spirito
Via Vincenzo Gioberti, 20, 13100 Vercelli

L' 8 Giugno alle ore 18:00 presso la Libreria dello Spirito ritorna l'appuntamento "APERITIVO DAL LIBRAIO": per questa serata ci dedicheremo all'approfondimento della "sempre eterna" Tradizione Romana e del suo riemergere in forma visibile nel Novecento con la potenza evocatrice dei suoi miti dopo secoli di oblio. Dal Gruppo di Ur, agli ideali romani di Arturo Reghini, da Imperialismo Pagano di Julius Evola ai Fascicoli dei Dioscuri apparsi nel secondo dopoguerra, affiora l'intento di uomini e gruppi per la realizzazione di una definitiva rinascita romana, da declinarsi su tutti i piani, dalla religione all'archeologia, dalle arti alla politica.


INGRESSO LIBERO

APERITIVO GRATUITO

sabato 18 novembre 2017

Quel gruppo di "maghi" fascisti che voleva influenzare il Duce

tratto da "il Giornale" del 23/09/2017

In questi giorni torna in voga la storia del gruppo di Ur, fondato da Julius Evola e che intendeva recuperare lo spirito pagano del fascismo

di Claudio Cartaldo

Si chiamava il "gruppo di Ur", una sorta di setta convinta di poter entrare nella "testa" del Duce e di condizionare con la "magia" le scelte del governo di Benito Mussolini. E al suo interno c'era anche il famoso scrittore e fonte di ispirazione di molti post fascisti: Julius Evola.

Come scrive La Verità, il nome del gruppo viene da una rivista pubblicata tra il 1927 e il 1928, poi trasformata in Krur. Al suo interno lavoravano moltissimi redattori e collaboratori, anche se i loro scritti erano sempre con pseudonimo. I temi erano soprattutto legati al mondo esoterico, molto apprezzato tra chi credeva in un fascismo pagano, slegato dai rapporti (poi fatti politicamente) con la Chiesa cattolica. In Ur uscivano contributi di meditazione, spiritualità e religione (ovviamente non solo il cristianesimo, ma piuttosto il buddismo e altre religioni orientali). Una spiritualità magica, fatta di una Grande Forza, energie vitali di cui secondo i componenti del gruppo il fascismo si era fatto rappresentante politico e sociale. Quell'Imperialismo pagano di cui scrisse lo stesso Evola.

Come detto, il rapporto con il Vaticano di questo gruppo di "maghi" non era ottimale. E infatti a definirli tali fu Giovanni Battista Montini, che poi diventerà Paolo VI. ne denunciava "l'abuso di parole" e la realizzazione di "aberrazioni retoriche, di rievocazioni fanatiche e superstizione magie". L'esistenza di Ur, però, non impedì a Mussolini di firmare il concordato. Il Duce era capace di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, e così fece altalenando la sua indole anticlericale con quella pragmatica di uomo di potere in uno Stato in cui il Vaticano contava (e conta) molto.

domenica 5 ottobre 2014

Il mistero del Graal

tratto da http://www.centrostudilaruna.it


"Venerdì santo. Nella cappella dei Cavalieri del Graal, sul “Montsalvat”, Parsifal, il “puro eroe” o “puro folle”, fa ritorno. Egli ha superato l’inconsapevolezza inerente alla sua stessa innocenza primitiva. Egli ha resistito alla lusinghe “delle fiori” e di Kundry, la bella creatura del mago Klingsor, che ottiene redenzione attraverso l’amore. La lancia del Graal che il re Amfortas aveva perduto peccando, egli l’ha riconquistata nel castello di Klingsor: è la lancia per la cui ferita sgorgò il sangue di redenzione di Gesù ma che anche piagò Amfortas, l’indegno e il lussurioso che volle accostare il Graal. Questa lancia, ora Parsifal la riporta dunque alla roccia del Graal. Al suo tocco, la ferita ardente di Amfortas scompare e il prodigio del venerdì santo si compie ancora una volta. Il Graal – che è coppa in cui Gesù bevve nell’ultima cena e che raccolse il suo sangue divino – si fa luminosa. Dall’alto scende una bianca colomba – lo Spirito Santo – fra la mistica esaltazione dei Cavalieri del Montsalvat".

Questa – come tutti sanno – è la trama del dramma mistico di Riccardo Wagner: solo attraverso il quale i più sanno qualcosa circa la leggenda del Graal. Dramma mistico al cento per cento, di un devoto languore cristiano che già provocò l’aspra rivolta del Filosofo del “superuomo” della “volontà di potenza”, di Federico Nietzsche, contro il suo amico, Riccardo Wagner. Ma quali sono le fonti da cui Wagner ha tratto il suo dramma? E quali sono le corrispondenze effettive tra tale dramma e quelle fonti?

A tale riguardo s’impone un riconoscimento suscettibile ad estendersi anche al rapporto fra le opere della “Trilogia” wagneriana col contenuto effettivo dell’antica mitologia nordica. Non vi è adeguazione. Non vi è corrispondenza. Wagner ha preso degli spunti per formar arbitrariamente un mondo d’arte e di musica che sta per sé e che, fuor dal suo valor estetico, sotto vari riguardi, fuorvia, più che non propizi, la comprensione vera dei significati più profondi celati nei miti e nelle leggende originarie.

Ciò vale anche per il Mistero del Graal. Le fonti effettive di questa leggenda, provenzali e germaniche, non concordano che scarsamente con i tratti più salienti del dramma wagneriano. Parsifal non è un “puro”, egli ha già conosciuto, e “tecnicamente”, Banchefleur e, in nome della sua vocazione cavalleresca, ha lasciato morire sua madre. Kundry non è una bella creatura demonica strumento di Klingsor ma una vecchia al servigio degli stessi cavalieri del Graal. La lancia non è mai stata rapita. In Wolfram Von Eschenbach il Graal non è una coppa, ma una pietra, e una pietra “luciferina”: in altri testi, è un singolare oggetto che appare e sparisce ed è dotato di proprio movimento senza che nulla nemmeno da lontano possa richiamare il calice dell’Eucaristia. Simboli essenziali, come la spada spezzata e la prova della spada, il re morto o in letargo e la sua resurrezione, sono stati tralasciati da Wagner. E così via. Ma oltre a tutto questo è da dirsi che il contesto dei testi ci mostra che quella del Graal non è una leggenda cristiana che alla superficie, che i suoi elementi costitutivi sono di ben altra natura e retrocedono ben più lontano.

La tradizione cattolica, infatti, nulla sa circa il Graal, e lo stesso dicasi per i primi testi del cristianesimo in genere.

La letteratura cavalleresca fiorita intorno al Graal si affolla inesplicabilmente in un breve periodo, suscita un intenso interesse e poi scompare subitamente: nessun testo è anteriore al primo quarto del XII secolo e nessuno è posteriore al primo quarto del XIII secolo. Onde, l’impressione che si ha è quella di qualcosa di sotterraneo affiorato momentaneamente, ma subito respinto e soffocato da un’altra forza: quasi al titolo di una tradizione segreta che sotto “spoglie strane” tramandava un insegnamento poco riconducibile a quello della Chiesa allo stesso modo che la posteriore letteratura dei cosiddetti Fedeli d’Amore (secondo quanto è risultato dalle ricerche del compianto Luigi Valli), o la stessa letteratura ermetico-alchemica o, infine la tradizione stessa dei Templari. E – si noti – Wolfram Von Eschenbach chiama esattamente i cavalieri del Graal “templeise”, cioè i templari...

Quando agli oggetti che figurano nella leggenda del Graal: una lancia, una coppa che da “nutrimento di vita”, o una pietra che ha il potere di designare i cavalieri atti a rivestire dignità regale – tali oggetti si ritrovano già in tradizioni precristiane. Tutti e tre, ad esempio, figurano già fra gli oggetti simbolici che, secondo una leggenda irlandese, la “razza divina” preistorica dei Tuatha avrebbe portati seco in Irlanda venendo da Avallon, un’enigmatica terra occidentale che forse è la stessa Atlantide del racconto di Platone. Vi è di più. La stessa antica tradizione romana presenta singolari corrispondenze. Numa costituì il collegio sacerdotale dei Salii a custodire un pegno, concesso dal Cielo, della grandezza dell’impero, pegnum imperii. Questi sacerdoti erano dodici – come dodici sono i principali cavalieri che custodiscono il Graal. Essi recavano una hasta o lancea, che è l’alto oggetto custodito, insieme alla coppa, da quei cavalieri. E di tale coppa, o anche della pietra regale, che è il Graal, essi hanno l’equivalente, in quanto ché ciascuno dei Salii ha, insieme alla hasta, un ancile, cioè uno scudo che però il Dumézil ha dimostrato avere il significato di recipiente che fornisce l’ambrosia, cioè un mistico nutrimento, proprio come la coppa del Graal o il recipiente dei Tuatha. E poiché, secondo questa leggenda romana, l’ancile sarebbe stato ricavato da un aerolito, o pietra divina discesa dal cielo, in ciò non solo vi è corrispondenza con la pietra regale o “fatidica” dei Tuatha (pietra che ancora oggi si conserva a Westmister e che è nera, nera come il misterioso lapis niger dei romani), ma vi è anche un motivo che riporta alla versione della leggenda del Graal secondo la quale lo stesso Graal sarebbe stato ricavato da una pietra caduta dal cielo, da uno smeraldo che ornava la fronte di Lucifero prima della sua rivolta. In più, la leggenda riferisce che, sotto tale forma, il Graal fu anche perduto da Adamo, fu riconquistato da Seth, passò in fine nelle mai di Giuseppe di Arimatea, un cavaliere ai servigi di Ponzio Pilato, il quale, dopo la morte di Gesù, lo portò in una regione che in alcuni testi reca enigmaticamente proprio il nome della regione atlantica misteriosa, patria originaria dei Tuatha, la razza divina che già aveva gli oggetti equivalenti a quelli della leggenda del Graal: nell’Avallon, insula Avallonis, l’isola bianca, ille blanche. Da qui si sviluppa un nuovo ciclo di leggende, ove le vicende dei “cavalieri celesti” alla ricerca del Gral si intrecciano con quelle della corte di Re Artù, cioè con motivi che provengono da antichissime tradizioni celtiche, se non anche druidiche.

In tutto ciò si hanno corrispondenze e connessioni che, per chi sa della logica segreta che sempre presiede alla formazione dei simboli tradizionali, non sono affatto casuali o stravaganti. La sostanza originaria della leggenda del Graal si mantiene anche nella sua successiva forma cristianizzata, in quanto ché suo motivo centrale non è più il “peccato” di Amfortas, né la “tentazione” del “puro folle”, non qualcosa di “mistico” bensì qualcosa di essenzialmente “regale” e guerriero: è il motivo del re morto e della spada spezzata da rinsaldare in connessione ad un’impresa pericolosa e mortale proposta ad un eroe, che, riuscendo, si eleva ad una dignità trascendente, contrassegnata da questa singolare formula, che si trova nell’antico testo del Merlin: "Onore e gloria e potenza e gioia sempiterna al distruttore della morte!"


Julius Evola


Articolo intitolato Il Mistero del Graal e apparso sul quotidiano Il Popolo di Roma il 30 marzo 1934. 

venerdì 1 agosto 2014

MEYRINK Le seduzioni del Diavolo


tratto da Il Giornale del 21 novembre 2005

di Marino Freschi


Gustav Meyrink (1868-1932) è una delle personalità più affascinanti della letteratura minore del Novecento, potremmo definirlo come uno dei simboli della Praga Magica, inventata da lui e codificata dal nostro Angelo Maria Ripellino. Già la sua vita è un romanzo magico: nasce a Vienna, figlio di un’attrice di straordinaria bellezza e di un padre segreto, forse un ministro, forse un principe regnante. Cresce a Praga allevato dalla nonna materna. Economicamente ben provvisto, è un giovanotto molto intraprendente in affari finanziari e galanti: fonda una banca, ma viene arrestato per presunti illeciti. L’accusa si rivela infondata, giustificata dal risentimento di un marito a ragione geloso. Durante il suo incarceramento, l’istituto di credito fallisce sulla scia dello scandalo.
Meyrink è distrutto, decide di farla finita, sta per suicidarsi quando dalla fessura dell’uscio di casa un fattorino getta un volantino di un catalogo di pubblicazioni occultistiche. Per Meyrink è il segno e la svolta per rifondare la propria esistenza. Diventa un esoterista e insieme uno scrittore. Con una scrittura strana e ambivalente. L’amarezza accumulata nelle imperialregie galere gli ispira novelle animate da un irresistibile estro grottesco, che pubblica sul Simplicissimus, la principale rivista satirica della Germania guglielmina, che ospitò anche l’esordiente Thomas Mann. Negli anni di guerra si rivela la sua impetuosa vena di romanziere, con una fitta serie di romanzi, tra cui, nel 1915, Il Golem, un intramontabile best-seller, un autentico capolavoro della narrativa fantastica, un racconto che ha definitivamente consolidato la svolta espressionistica in letteratura e nel cinema con l’omonimo film del 1920 di Paul Wegener.
Meyrink aveva lasciato Praga per stabilirsi in un ameno paesetto bavarese, ma la città boema rivive sempre più intensamente nella sua scrittura rapida, straripante, espressionistica, coinvolgente, che diviene suggestiva e trascinante fino a elevarsi a una dimensione magica, fortemente pervasa da una cultura occultistica, che lui praticava e predicava con successo e convinzione, divenendo uno dei principali esponenti dell’esoterismo mitteleuropeo, tradotto e introdotto in Italia da Julius Evola. L’attività pubblicistica ed editoriale è così frenetica che il romanzo L’angelo della finestra d’Occidente, del 1927 - ora ripubblicato da Adelphi (pagg. 459, euro 16) in una nuova e bella traduzione di Dora Sassi e Giusi Drago - è scritto almeno a quattro mani. Infatti gran parte del racconto è opera - accertata dalla critica - di Alfred Schmitt-Noerr, uno studioso affine spiritualmente e vicino di casa di Meyrink.
Il romanzo risulta tutto sommato unitario e l’interesse narrativo regge per tutto il racconto. L’invenzione del romanzo è giocata su due dimensioni temporali: quella di Sir John Dee, matematico, astrologo e alchimista dell’Inghilterra elisabettiana e della Praga di Rodolfo II, e quella contemporanea dello scrittore. La trama duplice è unificata dall’esperienza della reincarnazione e di una sofferta avventura iniziatica, cui è destinata la stirpe di John Dee, per cui il romanzo è un esempio - didattico - sulle insidie che minacciano l’eletto sulla via del risveglio. Il tema del tempo percorre l’intero racconto, mescolando con intrigante sapienza narrativa passato e presente, come riconosce il protagonista, scoprendo di essere anche lo studioso elisabettiano: «Il passato è divenuto presente! Il presente è il sommarsi di tutto il passato in un attimo di consapevolezza, oppure è nulla. E poiché questa consapevolezza - questo ricordo - si desta ogni qualvolta lo spirito la chiama, ecco che l’eterno presente vive nella corrente del tempo». Certo, un mito, ma anche una forte intuizione sul senso dell’individuo, così stretto nelle sbarre di un’esistenza singola.
Dopo tanto Signore degli Anelli e Harry Potter - anche quest’ultima opera molto meno «ingenua» di quanto si possa credere, tributaria di segrete suggestioni culturali - la prospettiva magica è ormai acquisita, anche se in Meyrink veniva sublimata nelle figure tradizionali della cultura esoterica del Primo Novecento - quella di Guénon e di Evola -, con il principio demonico della Donna, che è metafisicamente il Due, Satana, la corrosione del nucleo aureo dell’iniziato, non ancora assurto alla dignità dell’adepto, che ha realizzato pienamente la sua vocazione esoterica. Dunque, L’angelo della finestra d’Occidente è romanzo storico e insieme racconto fantastico, ma anche esempio stravagante del romanzo d’iniziazione, costellato di prove e di incontri fatali, che s’intrecciano nella trama quotidiana, che viene continuamente sollevata nel misterioso firmamento dello scontro tra le potenze solari della salvazione e quelle notturne e demoniache della disintegrazione. E come spesso avviene le figure del male sono le più vive, talvolta perfino più simpatiche - come l’antiquario moscovita Lipotin del Golem, anche lui reincarnazione di tutti i suoi antenati, ovviamente tutti fedeli servitori dello zar.
C’è poi la seducente principessa caucasica Assja Chotokalungin, che non può non ricordare un’altra femme fatale della letteratura tedesca di quegli anni: Clavdia Chauchat, la bella russa caucasica della Montagna incantata. E questi due romanzi, sorti quasi contemporaneamente, sono a modo loro due racconti d’itinerari iniziatici, come ebbe a riconoscere Mann in una celebre conferenza a Princeton. Ma se la magica montagna di Hans Castorp è velata da un’atmosfera di ambiguità e d’indeterminatezza, gli scenari disegnati da Meyrink o dalla «ditta» Meyrink, più ingenui e certamente più dozzinali, peccano di un didascalismo propagandistico. Eppure queste lacune sono anche gli ingredienti che fanno meglio risaltare la cultura esoterica dello scrittore. Una cultura fantastica che aveva profondamente influenzato gli scrittori praghesi, come Max Brod e perfino Kafka, che nel Castello, in assoluta autonomia, scrive un racconto che sfiora spesso le affascinanti figure della letteratura d’iniziazione. Meyrink rimane senza dubbio uno scrittore minore quando gli scrittori maggiori si chiamavano Thomas Mann e Franz Kafka.

mercoledì 30 luglio 2014

Guénon l'intransigente L'autorità dello spirito supera il potere politico

tratto da Il Giornale del 21 luglio 2014

di Marcello Veneziani

Rigoroso e matematico: così l'interprete della Tradizione critica la "falsa unità" delle nazioni nate per sete di dominio temporale

Se cercate un pensiero metafisico assoluto che non si contamina con la storia e col proprio tempo, che non scende a patti, non indulge sul piano personale ma resta integro e puro nei cieli della Tradizione, siete sulla via di René Guénon.
Rigoroso e preciso, matematico non solo nelle sue certezze ma anche nei suoi studi, che non completò (per poi laurearsi in filosofia e insegnare). Come accadde a Julius Evola, ingegnere mancato, e a Pavel Florenskij che abbracciò studi matematici, scientifici e umanistici con rigoroso ardore. Guénon torna ora in libreria con un suo testo del '29 che pubblicò in Italia Alfredo Cattabiani da Rusconi e che more solito Adelphi evita di citare nella riedizione. È un testo all'apparenza metapolitico, Autorità spirituale e potere temporale (pp.140, euro 12), che conferma la coerenza dei temi, il nitore dello stile, l'intransigenza antimoderna di Guénon. E anche, va detto, la solita, puntigliosa precisione espressa in reiterate precisazioni, che denuncia da un lato confusioni, malintesi e contraffazioni delle idee tradizionali e dall'altro ripete fino alla noia la sua estraneità a polemiche di scuola e di partito, appartenenze e rapporti col proprio tempo. Guénon insiste sulla sua indipendenza totale che però non coincide con il suo assoluto individualismo: anche quando rivendica la sua estraneità a ogni filone e a ogni legame col suo tempo, Guénon non parla mai a titolo personale ma sempre in nome d'una Tradizione metafisica rappresentata da pochi eletti. Sono le élites intellettuali, come le chiama Guénon, ma non c'entrano con l'uso corrente del termine intellettuale. Qui intellettuale sta per ispirazione dall'alto ed evoca l'uso dantesco (è notevole la sua interpretazione esoterica di Dante). La vera intuizione intellettuale per Guénon è del tutto perduta nell'epoca moderna. Brilla tra gli invisibili.
Quali sono i temi di questo testo? Innanzitutto la distinzione già presente nel titolo tra autorità e potere: la prima si addice al regno spirituale, la seconda al regno terreno e temporale. Quindi la distinzione tra religioso e sacro: la religione appartiene alla sfera del sacro ma non la esaurisce; il sacro si riferisce a un sacerdozio più ampio e a una conoscenza più alta. Non a caso, Guénon fondò da giovane una rivista, La Gnosi. A quale Tradizione Guénon si riferisce? A La Tradizione in sé, che è unica, sovrastante e permea le grandi tradizioni, sorge in Oriente, si manifesta nel sufismo, l'esoterismo islamico, e in Occidente diviene visione della vita e organizzazione gerarchica fino al Medioevo, per poi perdersi nella modernità. Come si accede alla Tradizione nell'epoca che ne è priva? Tramite il cammino iniziatico con i Maestri sulle Vie della Tradizione. Guénon da un verso percorre un itinerario che va dall'ordine martinista e dalla scuola ermetica alla Massoneria esoterica e alla Chiesa gnostica, in cui assume il nome di Palingenius - traduzione greca del suo nome - René, Ri-nato- che indica la rinascita. (Si veda La vita semplice di Guénon di Paul Chacornac, ed. Luni). Dall'altro si converte poi all'Islam e dopo aver scritto questo libro, nel 1930 va a vivere fino alla morte al Cairo, si risposa con la figlia di uno sceicco - avendo perso la prima moglie francese - e ha quattro figli, di cui uno postumo.
Rispetto al cristianesimo, Guénon criticò il protestantesimo che volta le spalle alla Tradizione, insedia il primato della coscienza individuale sul rito ed è il preambolo alle Chiese nazionali e poi alle nazioni, che per Guénon sono «false unità» che si sostituiscono per sete di dominio temporale alla «vera unità». Guénon ammira invece il cattolicesimo medievale e i suoi estremi bagliori. Ma aggiunge una considerazione importante: quando la Tradizione perde lo spirito della dottrina, meglio affidarsi alla lettera, alle sue forme esteriori, piuttosto che allontanarsi del tutto e definitivamente. Meglio i residui di verità perdute o dimenticate (le superstizioni di cui diceva Vico) piuttosto che il nulla. «La minima particella di spirituale sarà ancora incomparabilmente superiore a tutto ciò che appartiene all'ordine spirituale». Ma Guénon non applica lo stesso criterio nel giudicare il folclore, le usanze, le tradizioni umanistiche, nazionali e popolari che non considera estremi lasciti della tradizione ma segni negativi di una controtradizione. Nessuno, dice, può giudicare «una tradizione al lume di un'altra tradizione»: eppure Guénon lasciò la tradizione cristiana in cui nacque e fu battezzato e si convertì all'Islam. Questo contraddice l'idea stessa di Tradizione ed è più consono a una scelta autonoma di tipo individuale. Ma per Guénon non si può legare la sfera del sacro a un vincolo di tipo terreno, temporale e personale. Dense e dantesche sono le pagine sul paradiso terrestre e il paradiso celeste, il primo legato alla virtù e alla beatitudine in questa vita, il secondo invece legato alla visione divina e alla beatitudine della vita eterna. Alla prima si dedica l'Imperatore, il Princeps romano, alla seconda il Pontifex, che genera ponti tra l'umano e il divino. Il Pontifex maximus in Guénon è figura chiave della Tradizione: nell'iconografia è portatore di chiave, come al Sovrano si addice lo scettro. Il Papa è l'estremo erede, almeno nella lettera, di quella definizione e del suo ruolo pontificale. Guénon condanna «la superstizione dei valori» che sarebbero una contraffazione dei principi. Sui valori Heidegger e Schmitt arrivarono alle stesse conclusioni da altri percorsi. Per la dottrina orientale ripresa da Guénon «la giustizia è costituita dalla somma di tutte le ingiustizie, e nell'ordine totale ogni disordine è compensato da un altro disordine». Quasi una vichiana eterogenesi dei fini, direbbe Augusto del Noce. Come altri autori della Tradizione, Guénon sposa la dottrina dei cicli cosmici, dall'età dell'oro all'età oscura; una visione che ha senso se sottolinea la caduta dal piano metafisico e trascendente al piano profano e discendente. Ma se applicata al corso storico, si riduce a una visione regressiva, degenerativa e involuzionista della storia, speculare allo schema progressista e ai suoi limiti.
Chi incontrò Guénon a Villa Fatma, dove visse per anni, lo ricorda come un uomo esile, «fragile come un'arpa», con gli occhi di un azzurro intenso in un viso lungo; silenzioso, affabile e gentile, vestito con la galabiah e le babbucce, così trasparente che «sembrava avesse già raggiunto l'altra riva». Quando stava per morire, disse di lasciare intatto il suo studio perché lui sarebbe rimasto presente benché invisibile. Poi si raddrizzò dal letto e vide la sua anima prendere il volo.