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giovedì 28 settembre 2023

La disfida delle dieci città per la conquista del sacro Graal

tratto da "Il Giornale" del 10 Maggio 2017

Chiese e castelli si vantano di custodire l'ampolla col sangue di Gesù. Una reliquia che richiama ogni anno milioni di turisti

di Emanuela Fontana

Forme geometriche pure, unione tra uomo e infinito, perfezione aurea, scolpita nel numero di Dio. A Castel del Monte il grecale che viene dal mare soffia forte su quattro lati dell'ottagono, ma camminando contro corrente si placa lungo i torrioni rivolti alla campagna, fitti di conifere. Un luogo che è un mistero, da sciogliere come un gomitolo girandoci intorno, lungo quelle mura di forme chiuse e aperte, torri che sembrano lavorate al tornio, stelle a cinque punte e linee vitruviane, volute da Federico II ma di cui non risulta nessuna testimonianza storica di tempi di costruzione, utilità, funzione.

Isolato su una collina a sedici chilometri da Andria, il castello emerge come una conchiglia al limitare dell'Alta Murgia ed è uno degli scrigni d'Italia dove si dice sia custodito il Santo Graal, il sangue di Cristo. La ricerca del sacro tesoro lambisce angoli di Italia apparentemente non connessi tra loro dal punto di vista geografico o storico, come se la ricerca del Mistero, di una pietra filosofale in forma di sangue rappreso, non si esaurisse mai dopo secoli, libri, leggende e premonizioni. Castel del Monte, la fortezza a forma di coppa di calice, dove archi, portale, linee, rispondono al numero aureo, la sequenza di Fibonacci, e dove i visitatori crescono al ritmo di 15mila in più ogni anno (è il sito più visitato della Puglia e tra i primi del sud Italia). La chiesa di uno dei Santi più enigmatici della cristianità, Nicola di Bari, dalle cui ossa si sprigiona un liquido, la manna. L'insistente iconografia dell'angelo guerriero che sostiene un calice, i giochi di luce che sembrano illuminare un indizio inciso su una parete del Castello del Maschio Angioino a Napoli. Le leggende legate a un miracoloso arrivo via mare di un'ampolla a Sarzana, nell'entroterra ligure al confine con la Lunigiana. Il sacro catino della Cattedrale di Genova. Il Saas Carlash della Val Codera. Il calice di vetro del Duomo di Berceto lungo la via Francigena. Tutti questi luoghi rivendicano la custodia del sangue reale, il sang real. Calice, sangue, tomba.


IL CASTELLO DIVINO

In Puglia molti dei 260mila turisti che salgono la collina dell'ottogonale castello, di cui non si conoscono nè architetti nè data di costruzione, cercano un senso agli ultimi studi pubblicati sul Graal. Come il libro, in vendita nella libreria della fortezza, «Castel del Monte e il Santo Graal», edito da Laterza, di Aldo Tavolaro, in cui il castello a forma di cristallo, di pietra calcarea, marmo e breccia corallina viene vivisezionato nel gioco di diagonali del cortile interno, con l'angolo a 47 gradi, «doppio dell'angolo di inclinazione dell'asse terrestre». Secondo questa ricostruzione, in una cella segreta, in una nicchia tra le otto stanze trapezoidali del pian terreno e le altrettante del primo, potrebbe essere custodito il sangue di Gesù, o esservi addirittura una tomba che attesti una discendenza. Federico aveva un rapporto conflittuale con i Templari, i custodi del Graal, ma il castello è infarcito di simboli templari, a partire dalla testa barbuta presenta nella chiave di volta della settima sala, il Baphomet. Queste le teorie sullo scrigno della Murgia.


IL CRITTOGRAMMA DI SAN NICOLA

Ma forse per stare dietro al grande successo del castello svevo, anche Bari torna alla carica sulla paternità del Graal. Nella basilica è custodita una riproduzione della lancia di Longino, il centurione che trafisse il costato di Gesù sulla Croce. Dalla lancia che incise la ferita al sangue il passo è breve: la sacra essenza sarebbe custodita in un luogo che solo la decrittazione di un'incisione a 624 lettere posta sull'altare, il crittogramma di San Nicola, può svelare. Ovviamente nessuno sinora ci è riuscito. Nemmeno Dan Brown. Il trasporto nel 1087 delle ossa di San Nicola da Myrna, città turca di cui era vescovo, potrebbe quindi essere stato associato a un trasferimento ancora più prezioso.

Con il patrocinio dell'assessorato al Turismo, Napoli ha avviato a ottobre un imponente progetto con visite guidate e convegni, «Il Graal al Maschio Angioino». La possibile presenza del calice, o del sangue di Cristo, è legata a una serie di bassorilievi che ritraggono l'Arcangelo Michele, ma anche alla figura di Lucrezia d'Alagno, amata da Alfonso V d'Aragona. Le presenze al Maschio nel 2016 hanno sfiorato quota 300mila, con un aumento di visitatori negli ultimi due anni del 400%.


L'AMPOLLA DI LUNI

Anche la Liguria era crocevia di strade che collegavano l'Europa del Medioevo. A pochi chilometri dal mare, c'è una cittadina che rivendica il Santo Graal, ed è Sarzana. Qui vicino nacque, si sviluppò e si esaurì una florida civiltà legata al culto della dea Luna, e furono proprio le acque di Luni che nel 782 portarono sulla spiaggia una croce con inciso il volto di Gesù, il Santo Volto, e un'ampolla. I vescovi di Luni e Lucca si spartirono il miracolo, e a Luni, ora Sarzana, andò l'ampolla.

Compete con Valencia come possibile autentico calice l'affascinante Sacro catino della cattedrale di Genova, ora in restauro a Firenze, un vaso esagonale verde brillante in pietra bizantina indicato come il piatto usato da Gesù nell'Ultima cena. Sarebbe stato portato a Genova dopo la prima Crociata da Guglielmo Embriaco.


IL MISTERO IN UNA VALLE

La reliquia più cercata della storia sarebbe rimasta custodita fino al Quinto secolo nella chiesa di Aquae Sulis, in Britannia, e da qui spostata per la minaccia degli eserciti pagani. Ma prima di arrivare a Roma, avrebbe sostato in Val Codera, provincia di Sondrio, e qui si sarebbe fermata per l'invasione dei Longobardi. Il luogo scelto da un sacerdote del posto fu un enorme masso al termine di una conca, il Saas Carlash. Ma il Graal potrebbe anche trovarsi sotto il centro storico di Desenzano, o tra Desenzano e Sirmione, ovviamente ben nascosto, indicato dalle leggende come tesoro dei Catari. O sepolto in un pozzo vicino Aquileia. O giacere sotto la Basilica di Collemaggio, colpita dal terremoto del 2009, all'Aquila. O trovarsi nell'Abbazia di San Galgano, in provincia di Siena, vicino alla quale c'è addirittura una spada nella roccia. Ma non è di Artù, è di Galgano.


sabato 31 ottobre 2020

Merlino, Morgana e Artù. Sulle tracce degli eroi ​più moderni del Medioevo

tratto da "Il Giornale" del 05/08/2020

Altro che secoli bui, la saga della Tavola Rotonda è piena di energia, colore e forza letteraria. Einaudi pubblica in volume il corpus arturiano

di Claudia Gualdana

Il Medioevo è un dilemma. Chi ne sa nulla lo marchia con aggettivi spiacevoli: buio, oscurantista, barbaro. Chi lo conosce ne preferisce altri, per esempio fantastico. È infatti il termine compare nel titolo di due opere importanti dedicate all'evo di mezzo (Il medioevo e il fantastico, Il medioevo fantastico), rispettivamente di Tolkien e di Baltrusaitis.

Un luogo della memoria a tal punto controverso val bene qualche lettura. I capolavori non mancano, e ce n'è uno fresco di stampa. È Artù, Lancillotto e il Graal Volume I (La storia del Santo Graal, La storia di Merlino, Il seguito della storia di Merlino, a cura di Lino Leonardi, Millenni Einaudi, pagg. 1116, euro 90), un testo maestoso con introduzioni accurate, brevi compendi, apparati critici, note, immagini tratte da manoscritti originali. Tra l'altro è un evento editoriale: l'intero ciclo, di cui l'opera è il primo volume, non era mai stato tradotto integralmente in italiano moderno. Neanche in Francia è stato trattato come merita, è entrato nella Pléiade solo pochi anni fa e tuttora si fatica a considerarlo un classico. Eppure materia e cifre stilistiche sono da capogiro. Siamo nel regno del meraviglioso per eccellenza: il ciclo arturiano ai suoi inizi, che gli autori radicano in Terra Santa, nel segno della cristianizzazione delle terre del nord. Il tutto con un rutilante corollario di storie d'arme e d'amore, donzelle, cavalieri, re e principesse, contese e battaglie, creature fantastiche e un mago che è una celebrità, Merlino.

Il curatore ricorda che Lancillotto compare nella Commedia di Dante: laddove Francesca parla di un libro che fu galeotto nell'amore con Paolo allude proprio al Lancelot-Graal, chiamato dagli esperti «ciclo della Vulgata». Di cui la prima parte è quella in cui ci si perde in queste pagine lunghe eppure tanto veloci e leggere, per la quantità di storie incastonate che rapiscono e trasportano in un mondo sospeso a mezz'aria, sideralmente opposto a quello quotidiano.

L'avventura, il mistero. La lotta perenne tra il bene e il male. L'amore, la morte. Ed è la base del grande romanzo europeo, perché il ciclo arturiano è anche un viatico all'elaborazione psicologica dei personaggi. Lancillotto è il prototipo del cavaliere e dell'uomo perfetto, colui a cui ciascun giovane, a quei tempi, avrebbe dovuto ispirarsi. Bello, onesto, valoroso, pronto a morire per un ideale, eppure terribilmente umano, tormentato com'è dall'amore per la Regina Ginevra. Sarebbe ozioso riassumere qui una trama tanto intricata. Essa solca decenni attraverso la penna di scrittori diversi, talvolta celebri, talaltra abilissimi a nascondersi per mettere in primo piano soltanto la leggenda, e laddove uno conclude appare un altro a prendere i fili per riannodarne di nuove, sempre in nome della fedeltà verso quanto scritto prima. Meglio dunque fermarci agli esordi, che danno linfa e ragion d'essere a tutto ciò che verrà dopo.

Sappiamo che il ciclo è stato scritto nella Francia settentrionale nei primi decenni del Duecento, ed è stupefacente non tanto per «l'estensione inaudita» - scrive Leonardi quanto per il suo essere, per la prima volta in Europa, del tutto sradicato dal mondo greco-romano. Non da quello cristiano. Il primo libro della trilogia qui proposta è il Conte du Graal, non il capolavoro di Chrétien de Troyes, ma quello redatto da un monaco anonimo, probabilmente un eremita, secondo il quale la storia gli sarebbe stata consegnata direttamente da Gesù. Mirabolante espediente letterario per fondare un'epopea cristiano-barbarica: nel prologo il chierico spiega che, nella notte del giovedì santo di settecentodiciassette anni dopo la Passione, il Cristo gli appare e gli affida il Libro, scritto di suo pugno. L'eremita scopre così che gli evangelizzatori del nord erano dello stesso lignaggio di Gesù. Quindi legge per noi la straordinaria avventura umana di San Giuseppe di Arimatea, che nei Vangeli si occupa della sepoltura del corpo di Gesù. Gli apocrifi e la fantasia medievale lo hanno trasformato nel personaggio leggendario che avrebbe evangelizzato interi popoli portando con sé il Santo Graal, una ciotola in cui aveva raccolto alcune gocce del sangue di Cristo.

Il ciclo arturiano fiorisce quindi nella santità dei dogmi cristiani, in modo particolare la transustantazione, la trasformazione del pane e del vino in carne e sangue, come stabilito dal Concilio lateranense del 1215.

È come se la cornice sacra inquadrasse tutte le altre vicende, in una serie di mise en abyme che senza di essa si perderebbero in mille rivoli. E invece no, se persino il racconto della vita di Merlino, mago, e dunque di ascendenza in qualche modo demonica, trova nel santo battesimo una sorta di esorcismo e di nobilitazione. I due libri rimanenti sono dedicati a questa figura di indovino semi-selvaggio, come se la parabola salvifica del Cristo volesse per suo tramite purificare tutto ciò che a settentrione era stato prima della lieta novella. Il profeta indovino è il ponte che unisce la Terrasanta al nord Europa, Giuseppe di Arimatea e Lancillotto, la salvezza cristiana e il sottobosco pagano che essa ingloba e rettifica. Una strategia narrativa geniale, in cui una creatura destinata al paganesimo viene riscattata al bene, così come terre barbare sono conquistate alla civiltà in nome del Vangelo. Quindi questa storia quasi senza fine ha un fine nella conquista della perfezione cristiana.

Nella cerca c'è spazio per una commedia umana pre moderna in cui la grande assente è la noia, anche per il buon gusto che ha il narratore di starsene in un angolo, con grande beneficio per i caratteri sulla scena. Non c'è spazio neanche per il buio, perché i colori sono davvero tanti. Il blu del mare solcato dalla nave di Salomone; il rosso dei capelli della fata Morgana, sorella di Artù. L'oro della coppa del Graal apparsa a Parceval in un castello incantanto. Il verde delle foreste del nord Europa. Un caleidoscopio che fa pensare alle vetrate coloratissime delle cattedrali gotiche. Che stanno lì da secoli, radicate e solide. Proprio come la leggenda di Artù e dei suoi cavalieri immortali.



mercoledì 11 novembre 2015

Nel castello del Re Pescatore

Nota: articolo trovato in rete senza altre indicazioni

ALLE ORIGINI DEL MITO, L'INIZIAZIONE DI PARSIFAL E L'INCONTRO CON PERSONAGGI ENTRATI A FAR PARTE DEL NOSTRO IMMAGINARIO

Giunto al castello del Re Pescatore, dopo una serie di avventure, Perceval, il "giovane ospite", assiste a questa strana processione: «Mentre parlano di questo e d'altro, un valletto viene da una camera, e tiene una lancia lucente impugnata a metà dell'asta. Passa tra il fuoco e coloro che sono assisi sul letto. E tutti i presenti vedono la lancia chiara e il ferro bianco. Una goccia di sangue stillava dalla punta di ferro della lancia. Fin sulla mano del valletto colava la goccia di sangue vermiglio. Il giovane ospite vede tale meraviglia e si trattiene dal domandarne ragione. È perché rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non gli insegnò che non si deve mai parlare troppo? Porre domande sarebbe villania. Non dice parola. Poi arrivano due valletti, tenendo in mano candelabri d'oro fino lavorato a niello. [...] Una fanciulla molto bella, slanciata e ben adorna veniva coi valletti e aveva tra le mani un graal. Quando fu entrata nella sala col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero il chiarore, come stelle quando si leva il sole o la luna. Dietro di lei un'altra damigella recava un piatto d'argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell'oro più puro. Vi erano incastonate pietre di molte specie, le più ricche e le più preziose che vi siano in mare o in terra...».

CODICE CORTESE

Il Perceval di Chrétien de Troyes, che per la prima volta ne racconta le vicende, è una sorta di "romanzo iniziatico". Vi si narra infatti di come il giovane Perceval il Gallese, «figlio della dama Vedova» e abitante nella «Guasta Foresta» - dov'è cresciuto all'oscuro dei costumi cavallereschi giacché la madre (che a causa della cavalleria ha perduto gli altri suoi cari) ha voluto tenerlo al riparo da tale conoscenza - intraprenda la professione delle armi cortesi giungendo, attraverso differenti insegnamenti, a un alto grado di perfezione spirituale. Un giorno, nella foresta, egli si imbatte in alcuni cavalieri: spaventato e affascinato dalla loro bellezza e potenza, pone alcune petulanti domande e, sulla base delle loro risposte, decide di recarsi alla corte di Artù a Carduel, nel Galles, per ricevere dalle sue mani le armi e la dignità cavalleresca. La madre, pur acconsentendo con molto dolore al suo desiderio, gli impartisce alcuni elementari insegnamenti d'etica cavalleresca.
Seguendo in modo maldestro queste indicazioni, il giovane ingenuo, rozzo e selvatico (un "puro folle") giunge alla corte di Artù, uccide il Cavaliere Vermiglio che ha recato offesa al re e riceve i veri insegnamenti sul modo di combattere e sull'etica cavalleresca dal gentiluomo Gornemant de Goort. Questi, in particolare, gli impone di risparmiare sempre il nemico inerme, di astenersi dal parlar troppo, di assistere i bisognosi, di serbare la fede e pregare.
Forte di tali precetti Perceval arriva nel castello del cosiddetto "Re Pescatore", dove ha luogo la misteriosa processione del graal, che si ripete più volte durante il banchetto.
Un graal «tutto scoperto» passa a ogni portata, e il giovane desidererebbe chiedere che cosa significhi la scena e cosa sia quel graal: ma, ben ricordando gli insegnamenti di discrezione impartitigli da Gornemant, non osa porre alcuna domanda.

LA COLPA DI PARSIFAL

Il mattino seguente, il castello è vuoto. Perceval si ritrova da solo; sconcertato, riparte e dal casuale incontro con una fanciulla nella foresta apprende che il Re Pescatore è gravemente ferito: se egli avesse posto la domanda relativa alla natura e alla funzione del graal quegli sarebbe stato risanato.
L'errore di Perceval deriva da una colpa, quella di aver fatto morire di dolore sua madre quando l'aveva abbandonata per dirigersi alla corte del Re Artù.
Dopo altre avventurose vicende - che si intrecciano con quelle di Galvano, un cavaliere della Tavola Rotonda - il giovane gallese perviene a un eremo nel quale incontra un santo anacoreta. Questi gli rivelerà di essere fratello di sua madre e del re al quale è servito il graal, il cui contenuto è un'ostia: «quest'ostia sostiene e conforta la sua vita, tanto essa è santa, ed egli stesso è sì santo che nulla lo fa vivere se non l'ostia del graal».
Dopo questa rivelazione, Perceval resta presso lo zio eremita e si sottopone a una dura penitenza per espiare i suoi peccati. L'educazione cavalleresca del giovane folle si perfeziona così, grazie all'affinamento dello spirito. Per molte pagine il romanzo prosegue parlando delle avventure di Galvano, per poi restare incompiuto.
I pochi versi relativi all'apparizione del graal nel castello del Re Pescatore e quelli successivi, sull'ostia contenuta nel recipiente e della quale il Re Ferito si ciba, hanno segnato profondamente l'immaginario europeo: da allora quel graal è divenuto il Santo Graal, oggetto d'innumerevoli altri racconti, nonché di studi, di polemiche, di riflessioni artistiche, di improbabili leggende.

INCANTESIMO CELTICO

Tra la fine del XII secolo e la prima metà del successivo si andò formando, in Francia e in tutta Europa, un corpus di testi letterari, tanto in versi quanto in prosa, che continuarono e ampliarono - con innumerevoli varianti - il racconto del Graal. Il fatto che la parola "graal" fosse scarsamente comprensibile fuori dal contesto franco-celtico favorì il passaggio del termine da nome comune a nome proprio.
>Si immaginarono le vicende che avrebbero potuto concludere il Perceval di Chrétien e se ne proposero varie "continuazioni" nelle quali si seguivano sia le avventure del protagonista, sia quelle di Galvano. Ma si volle anche chiarire e risolvere il "mistero" del Graal in chiave pienamente cristiana. Per questo se ne narrarono antefatti e vicende più o meno come si era fatto e si andava facendo per la più celebre e gloriosa reliquia della cristianità: la Santa Croce. Così come esiste, redatta nel corso del XIII secolo, una Legenda Crucis che segue la sorte del legno della croce dal Paradiso terrestre sino al Calvario, abbiamo anche una "Leggenda del Graal", che percorre le vicende del santo recipiente dal momento della sua realizzazione in poi.
Intorno al 1200, il piccardo Robert de Boron - non sappiamo se a conoscenza del testo di Chrétien - scrisse in versi il Roman de I'Estoire du Graal, noto anche sotto il titolo di Joseph d'Arimathie. Con Robert, l'atmosfera di incantesimo celtico - la visita al magico castello del Graal, la misteriosa infermità del Re Pescatore che rende il regno esposto ai pericoli e ai malefici, i recipienti e le armi prodigiose, l'eroe destinato a rompere l'incantesimo - scompariva per dar luogo a un racconto ispirato a scritti evangelici apocrifi come il Vangelo di Nicodemo, fondato sulla Passione e sull'Eucarestia. Nel racconto di Robert de Boron si narra, infatti, il trasferimento del Sacro Vaso - in cui Gesù aveva celebrato l'Eucarestia nel corso dell'Ultima Cena - da Gerusalemme in Inghilterra, grazie a Giuseppe d'Arimatea.

LA TESTA SUL PIATTO

All'inizio del XIII secolo appartiene anche il Peredur, un racconto gallese in prosa, che richiama ampiamente il Perceval di Chrétien de Troyes, ma che presenta alcuni elementi distintivi: vi si narra infatti che il Re Pescatore è stato ferito dalle incantatrici di Caer Loyw, che hanno assassinato anche un cugino di Peredur. Il fine delle avventure sembra dunque essere la vendetta di Perceval, con cui infatti si chiude il romanzo.
Il Graal, pur non essendo mai indicato con questo nome, appare al protagonista in modo simile a quanto si è visto per il romanzo di Chrétien; tuttavia, particolare certo non insignificante, esso è presentato come un vassoio nel quale è posta la testa tagliata del cugino di Peredur: «Peredur conversava con lo zio quando vide due uomini attraversare la sala ed entrare in una camera: portavano una lunga lancia dalla cui punta colavano a terra tre rivoli di sangue. [...] Dopo qualche istante di silenzio, entrarono due fanciulle che portavano un grande vassoio sul quale poggiava la testa di un uomo immersa nel sangue...».
Sull'origine del romanzo gallese, il più vicino al Perceval, sono state avanzate diverse ipotesi: derivano entrambi da un'unica fonte scritta comune, poi perduta? Sono varianti di una tradizione orale? Oppure il Peredur non è che una fra le tante rivisitazioni del Perceval?
Tra il 1200 e il 1230 apparvero quattro "continuazioni" in versi del Perceval di Chrétien, tutte d'autore anonimo o d'incerta attribuzione. Della prima abbiamo tre redazioni, diverse l'una dall'altra. Nel testo, ovviamente molto complesso, il protagonista principale non è Perceval, bensì Gauvein. Nella vicenda è presente tanto l'impronta cristiana quanto quella celtico-meravigliosa: probabilmente a causa delle sovrapposizioni verificatesi nel corso di almeno tre decenni.
Nella seconda continuazione - generalmente attribuita a Wauchier de Denain, un autore degli inizi del Duecento che lavorava per i sovrani di Fiandra - il protagonista torna a essere Perceval, ma il Graal è del tutto cristianizzato e viene presentato come il calice che raccoglie il sangue di Cristo. Anche il probabile autore della terza continuazione, Manessier, lavorava presso la Casa di Fiandra; la datazione dell'opera è incerta e va dal 1214 al 1230. Da notare che, proprio nel XIII secolo, il culto della reliquia del Sangue del Cristo era molto forte in Fiandra, specie nelle città di Liegi e di Bruges. È da lì, e da allora, che prese le mosse la festa eucaristica del Corpus Domini. Il testo di Manessier parte dalla seconda continuazione e unisce elementi provenienti da svariati racconti, ma fa emergere anche distintamente il tema della vendetta che domina il Peredur gallese. La quarta continuazione, composta tra il 1226 e 1230, si deve a un certo Gerbert, da alcuni identificato con Gerbert de Montreuil. Come Manassier, anche Gerbert prende lo spunto iniziale dalla seconda continuazione, ma con una impronta più marcatamente cristiana.

GIOIELLO DEL CIELO

Intanto, tra il primo e il secondo decennio del XIII secolo, sul tema interveniva il poeta tedesco-meridionale Wolfram von Eschenbach, il cui Parzival immette nel tessuto simbolico e narrativo impiantato da Chrétien una serie di elementi alternativi che sembrano d'origine orientale, al posto di quelli celtici che la tradizione tedesca riteneva evidentemente estranei. La differenza più evidente risiede nella descrizione stessa del Graal, che viene rappresentato come una pietra preziosa: «Il più bel gioiello del cielo, fonte e meta d'ogni gioia. Questa cosa è detta il Graal, segno d'ogni bene in terra». Per il castello del Graal descritto da Wolfram si sono recentemente proposte identificazioni con una fortezza persiana del Kurdistan o dell'Azerbaigian; ma è ignoto attraverso quale fonte il poeta avrebbe avuto accesso alla descrizione di tali edifici.
Altri romanzi duecenteschi in prosa hanno trattato del Graal. Il franco-settentrionale Perlesvaus è stato datato da alcuni al 1200-1210, da altri al 1230-1240; il testo differisce sostanzialmente rispetto alle altre continuazioni del Perceval e rivela in alcuni tratti un substrato celtico piuttosto marcato.

LA VISIONE DI GALVANO

I personaggi principali del Perlesvaus sono quattro: Perceval (chiamato "Perlesvaus" da Perd-les-vaux, "perde le valli", con riferimento alla perdita dell'eredità e dell'assassinio del padre che innesca la sua volontà di vendetta: tema che dunque lo approssima al Perceval), Lancillotto, Artù e Galvano, al quale spetta la visione del Graal, tema che rivela anche una netta influenza cristiana, nonché una maggior chiarezza rispetto a Chrétien: «D'un tratto, da una cappella uscirono due damigelle: una teneva tra le mani il Santo Graal e l'altra la Lancia dalla cui punta il sangue stillava cadendo nel Santo Vaso. Camminando fianco a fianco entrarono nella sala in cui i cavalieri desinavano con messer Galvano. E l'aroma che si sprigionava dal Sacro Vaso era così soave e santo che essi dimenticarono il mangiare. Galvano osservò il Graal, e gli parve che dentro vi fosse un calice di una foggia rara per quei tempi, e guardando la punta della lancia da cui stillava il sangue vermiglio gli sembrò di vedere due angeli che portavano due candelabri d'oro con i ceri accesi. Le damigelle gli passarono davanti ed entrarono nella cappella. [...] Gli sembra anche che nel Graal vi sia la figura di un bambino. Il capo dei cavalieri gli disse qualcosa, ma Galvano tenne gli occhi fissi davanti a sé e vide che sulla tavola cadevano tre gocce di sangue. [...] Ed ecco che le fanciulle ripassano ancora una volta davanti alla tavola. Ora a messer Galvano sembra che siano tre, e quando solleva lo sguardo gli pare che il Graal sia sospeso in aria e che sopra ci sia un uomo inchiodato a una croce con una lancia conficcata nel costato. Preso da profonda compassione, Galvano non riesce a pensare ad altro che alle tremende sofferenze del Re. Il capo dei cavalieri lo esorta di nuovo a parlare, e gli dice che se non lo farà subito non ne avrà mai più l'occasione, ma Galvano continua a tacere, non lo ascolta e tiene lo sguardo fisso verso l'alto. Allora le damigelle rientrano nella cappella e scompaiono insieme al Santo Graal e alla lancia».

UN ROMANZO FIUME

Il Didot Perceval del cosiddetto Pseudo Robert de Boron è, con il coevo Perlesvaus, il primo romanzo francese in prosa a trattare del Graal. Il testo si presenta come una combinazione tra la queste del Graal e il tema del declino del ciclo arturiano, che l'autore presenta come una trasposizione in prosa del Perceval di Robert de Boron, opera che non ci è mai giunta.
Tra il 1215 e il 1235 furono redatte le anonime Estoire del Saìnt Graal e Queste del Saìnt Graal, entrambe in versi, che finirono con il costituire insieme una specie di "romanzo-fiume" noto come Lancelot-Graal o più semplicemente come «ciclo vulgato» (composto anche dal Merlin, dal Lancelot e dalla Morte Darthur, da cui sarebbero scaturiti fino al Quattrocento continui rifacimenti, fra cui quello toscano della Tavola Rotonda. Nel «ciclo vulgato» il Graal è del tutto cristianizzato alla luce della vicenda di Giuseppe d'Arimatea narrata da Robert de Boron. Nel l'Estoire del Saint Graal è la coppa utilizzata da Gesù nel corso dell'ultima cena; nella Queste la vastità della materia fa sì che l'oggetto appaia in diverse occasioni e sia al centro delle avventure di numerosi personaggi. Ormai, esso sarebbe rimasto definitivamente il calice usato da Gesù nell'Ultima Cena per fondare il rito dell'Eucarestia, poi utilizzato anche dagli angeli per raccogliere il sangue sparso dal Signore durante il suo martirio.

Chi vuol bere a quella coppa?

ALLEGORIA EUCARISTICA, SIMBOLO DI SALVEZZA O DEL POTERE: LA FORZA MAGICA DEL SACRO GRAAL APPARE DENSA DI SIGNIFICATI

Nello sviluppo del ciclo di romanzi del Graal si era dunque evidenziata una graduale prevalenza degli elementi di origine cristiana rispetto a quelli presumibilmente derivati dalla tradizione celtica. L'incompiuto romanzo in versi di Chrétien de Troyes aveva lasciato aperti problemi e interrogativi di ogni genere. Il Peredur, il Perlesvaus e la prima continuazione del Perceval insistevano sul versante celtico; la seconda e la terza continuazione, ma soprattutto il testo di Robert de Boron e la Queste, ci pongono invece dinanzi a un quadro completamente cristianizzato ed eucaristico (sia pure complicato da qualche elemento gnostico); piuttosto defilato il romanzo di Wolfram von Eschenbach, che ambienta il Graal in un contesto orientale. Il significato dei testi del Graal "cristianizzato" del pieno Duecento è sostanzialmente chiaro, mentre più dibattuto è il problema di quale senso dare tanto al corteo del Graal quanto, più in generale, all'intera vicenda che si narra nel Perceval di Chrétien e nelle prime continuazioni.
Alcuni avevano voluto vedere già in questi primi testi un'ispirazione pienamente cristiana: le immagini che compongono il corteo del Graal (in particolare, il Graal stesso e la lancia insanguinata) sarebbero mutuate dall'iconografia cristiana. Il Graal richiamerebbe l'allegoria eucaristica, mentre la lancia sarebbe quella di Longino (il santo leggendario che trafigge il costato del Salvatore, il cui nome deriva forse dal greco longkhè, "lancia"). L'iniziazione di Perceval andrebbe letta come una metafora dell'evoluzione del ceto cavalleresco del tempo: dalla cavalleria mondana della Tavola Rotonda a quella mistica, ascetica e cristiana. L'interpretazione integralmente "cristiana" - che cioè esclude "prestiti" da altri contesti culturali - dei primi testi che parlano del Graal non è tuttavia quella prevalente nella storiografia contemporanea, in quanto appare evidente la presenza di sicuri e abbondanti riferimenti al mondo celtico. Quel che appare, invece, certo è la piena appartenenza degli autori al mondo e allo spirito cristiani: non è credibile l'ipotesi di una sopravvivenza, nella Francia dei secoli XII e XIII, di un culto pagano-celtico, di una persistenza cosciente o di un revival pagano, di un'"Antichiesa" del Graal erede di un qualche sistema mito-cultuale precristiano travestito da leggenda eucaristica.
Gli elementi essenziali che appaiono nella cerimonia del Graal, oltre alla coppa-piatto, sono la lancia e, in un caso, la testa. Vediamo dunque quale può essere il senso complessivo dell'episodio, da una parte, quello dei singoli elementi che lo compongono, dall'altra.

VIAGGIO NELL'ALTRO MONDO

È probabile che la queste del Graal si rifaccia alle avventure nell'aldilà e alla ricerca di oggetti magici di cui la letteratura di derivazione celtica offre frequenti esempi. Secondo l'opinione comune, i Celti che durante il VI-V secolo a.C. occuparono i territori dell'attuale Francia centro-settentrionale, del Belgio, del bacino renano (conosciuti con il nome di "Galli") o delle Isole Britanniche e della Penisola iberica (i Celtiberi), avrebbero lasciato le tracce più evidenti della loro civilizzazione in Irlanda, nel Galles, nella Cornovaglia e nell'Armorica: le aree che meno avevano subito la conquista e l'acculturazione romane. Da queste regioni scaturì un tipo di letteratura in cui emergono diversi tratti culturali di origine celtica; si tratta tuttavia di prodotti tardi, di epoca medievale, che dunque non presentano una tradizione originaria, ma intrecci di tradizioni differenti, in cui gli elementi riconoscibili come "celtici" non sono che uno fra i molti influssi presenti.
La Tavola Rotonda ricalcherebbe una tavola dei festini celtica; a questa "corte" di guerrieri la tradizione celtica ne farebbe corrispondere una parallela nell'aldilà, governata da un re prodigo che dimora in un castello meraviglioso, in cui un calderone magico garantisce universalmente l'abbondanza. Come già detto, l'aventure alla ricerca di oggetti magici (pietre, talismani, coppe meravigliose, armi dotate di straordinari poteri ecc.) nell'Altro Mondo è alla base di molti racconti irlandesi e gallesi, come per esempio quelli detti Mabinogion, composti agli esordi del XIII secolo; l'eroe designato a tale queste deve superare molte difficili prove, in una sorta di iniziazione che gli consentirà l'accesso al misterioso aldilà.

LE FONTI DEL POTERE

Nel Perceval di Chrétien de Troyes uno degli oggetti magici, la lancia - che sanguina per il colpo inferto - ferisce il Re Pescatore, il cui nome potrebbe derivare dall'associazione fra questi e alcune divinità legate all'acqua, come Nuadi e Bran. La ferita rende il re, e specularmente le sue terre, sterili. La "cerca" del Graal, cioè del calderone dell'abbondanza, da parte di un eroe giovane e puro consente il ripristino dell'integrità del sovrano e del regno. La lancia e la coppa sono i segni della regalità: se Perceval avesse chiesto il significato di questi oggetti, avrebbe svelato le fonti del potere regale, ripristinandolo. Inoltre, il Peredur e il Perlesvaus presentano forse alcuni elementi arcaici, vivi nella tradizione orale, ma non ripresi da Chrétien: la testa tagliata sul piatto e la vendetta di sangue che guida l'aventure del protagonista ne sarebbero le prove più evidenti.
L'incertezza nella decifrazione del mito del Graal deriva essenzialmente dalla presenza in culture anche geograficamente lontane tra loro di simboli formalmente molto simili. A metà del IX secolo, al tramonto dell'impero carolingio, il vescovo Audrado di Sens, autore di scritti profetici frutto di visioni, compose un poemetto, il De fonte vitae, dedicatario del quale era lncmaro di Reims, il grande studioso ed ecclesiastico del quale Audrado si sentiva evidentemente debitore. In questo poemetto si narra di un viaggio verso «il luogo più bello del mondo», nel quale scaturisce il Fonte della Vita alla quale si puà attingere solo se si è in possesso di uno speciale vaso.
Nel contesto del poema di Audrado, i simboli sono chiari: la sorgente è il Cristo "Fonte di Vita"; l'Acqua è il Divino Sangue, sprizzato nella Passione, che rivive attraverso il mistero eucaristico; il Vaso è Io Spirito che consente di attingere al Fonte e di bere, entrando in piena comunione, materiale e spirituale, con il Cristo.
Le fonti cui Audrado si ispira sono anzitutto bibliche ed evangeliche - dal Cantico di Salomone all'Apocalisse - ma anche classiche. Attraverso la cultura classica - mediata da autori come Boezio, Venanzio Fortunato e Alcuino - giungevano ad Audrado echi della tradizione greca e di quelle orientali, che erano peraltro presenti anche negli stessi testi vetero e neotestamentari.
Il calice e la coppa, insomma, sono dei veri e propri grandi archetipi, densi di significato presso tutte le culture del mondo eurasiatico-mediterraneo.
Nei Salmi biblici il cantore offre a Dio la coppa della salvezza e riceve da lui quella delle benedizioni o del castigo; il Vangelo parla del calice del dolore; al contrario, la coppa che trabocca è simbolo di gioia e di abbondanza (proprio come nella tradizione celtica). Nell'Apocalisse, infine, sono menzionate le coppe ricolme dell'ira divina.

FINESTRA SULL'UNIVERSO

Ma la coppa è centrale anche nei riti vedici e nelle liturgie brahmanico-induiste; mentre nella tradizione islamo-persiana. Il mitico re Gemshid possiede una coppa nella quale si può vedere l'intero universo: coppe e bacili sono infatti strumenti abituali per i riti divinatori come per l'elaborazione di potenti filtri. Quest'idea della coppa come sede di potenza e di sapienza si ritrova nella tradizione islamca della mistica sufi, allorché a una coppa è paragonato il cuore dell'arif (cioè il saggio, l'iniziato) Spieghiamoci meglio: nell'Avesta, il libro sacro deillo zoroastrismo, il segno visibile della regalità solare, lo xvarenah, da cui hanno origine le tre funzioni sociali - studiate da Georges Dumèz per gli indoeuropei e da Georges Duby nel Medioevo occidentale -, cioè i sacerdoti, i guerrieri e i produttori, è detenuto dal sovrano primordiale Yimi Xshaàta. Questo sovrano è identificato nella tradizione islamica, nella quale, con la conquista della Persia, molti miti iranici sono confluiti con l'eroe civilizzatore Gemshid, che altri non sarebbe se non il Salomone biblico, il fondatore del Tempio sulla roccia del monte Moriah. E a Gemshid-Salomone apparterrebbe appunto l'oggetto magico e regale della prodigiosa coppa "che mostra il mondo".
Ritroviamo coppe e bacili come simbolo di potere o come oggetti magici anche nella tradizione greca. Ma è nel mondo germanico che la coppa ha certamente un significato di trasmissione della sovranità. Per esempio, si conserva nel tesoro del duomo di Monza il calice che la regina Teodolinda avrebbe offerto ad Agilulfo, da lei prescelto nel 590 alla successione del defunto marito Autari, come simbolo del passaggio del potere regale.

LANCIA DI FUOCO

Allo stesso modo, nel sistema mitico-simbolico celtico la coppa emblema di regalità e il bacile-calderone dell'abbondanza e della conoscenza, appartenente al dio Dagda, si sovrappongono; le leggende testimoniano come la coppa colma di idromele o di vino offerta da una ragazza - ricordiamo che nel Perceval di Chrétien è una donna a portare il Graal - a un candidato al trono sia il segno della sua elezione e la coppa più bella e preziosa sia l'offerta atta a celebrare l'eroe, il più valoroso fra i guerrieri. Si può dunque ipotizzare che la coppa come simbolo al contempo di regalità e di abbondanza sia un archetipo delle culture indoeuropee.
Al pari della coppa, anche la lancia è un intenso e diffuso simbolo. Una coppa e una lancia (quella di Longino) sono entrambi simboli della Passione, ed è la loro presenza associata a suggerire che la "processione del Graal", descritta da Chrétien de Troyes nel Perceval, abbia un significato anzitutto eucaristico.
Ma la lancia è a sua volta simbolo di sovranità. Da essa deriva lo scettro, e in greco il termine sképtron (verga, lancia, scettro) si associa al concetto di "fulmine" e ha valore magico quale strumento al tempo stesso di salvezza e di perdizione: come la lancia di Achille che - non diversamente dalla clava del dio celtico Dagda - poteva al contempo ferire e guarire. Conosciamo, per i Longobardi, un chiaro uso della lancia come simbolo supremo di regalità: il gesto di afferrare la lancia, nel corso della saga longobarda, è il simbolo del passaggio del potere quando i legami di sangue nella successione regale vengono a mancare, secondo il modello esemplato dalla vicenda del mitico re Lamissione, distintosi già nell'infanzia per aver afferrato la lancia protesa verso di lui dal sovrano Agilmundo.
Nella mitologia celtica la lancia è attributo del dio Lug, che la prende dalle mitiche "Isole del mondo": è una lancia di fuoco che infligge colpi mortali, dunque è prossima al fulmine. La stessa arma compare nelle mani di molti fra i guerrieri mitici della tradizione celtica, come Cuchulainn e suo fratello Conall.

IL SACRIFICIO DI BRAN

Un motivo di origine celtica è quasi sicuramente la testa tagliata e recata nel piatto-Graal che appare nel Peredur, anche se tale immagine in ambito cristiano non poteva non ricordare la decollazione di San Giovanni Battista. Troncare la testa ai nemici era abitudine comune per i guerrieri celti; l'atto aveva un significato rituale e cultuale, oltre che semplicemente guerriero. Lo si deduce, per esempio, dall'episodio del Mabinogion noto come Branwen, figlio di Llyr: il protagonista, Bran il Benedetto, ferito, ordina ai suoi uomini in difficoltà di mozzargli la testa che li accompagnerà e li guiderà nel corso di un lungo viaggio; quando infine viene sepolta essa è talmente potente da allontanare ogni calamità dalla terra in cui giace. Il costume sopravvisse fino ai primi secoli della cristianizzazione: nella Vita del vescovo - e poi santo - Germano di Auxerre si racconta, ad esempio, che prima di abbracciare il cristianesimo egli fosse solito sospendere, secondo l'antico costume pagano, le teste degli animali cacciati ai rami di un albero sacro; l'impiccagione rituale, d'altronde, era costume dei Germani e degli Scandinavi, che sacrificavano così al dio Wotan/Odino. Il tema della testa tagliata e del valore della testa (e del cranio scarnificato) sul piano magico è ben noto in molte culture, soprattutto - ma non soltanto - indoeuropee e uraloaltaiche. Il fatto che in area eurasiatica si ricavassero coppe dai crani dei nemici uccisi (come nel noto episodio di Alboino e del re dei Gepidi narrato da Paolo Diacono) collega il tema del sacrificio con quello della regalità, del potere e dell'abbondanza: i temi del Graal.
Possiamo dunque affermare che il duplice significato dell'abbondanza e del potere-regalità connota con una certa costanza gli oggetti che compongono la cerimonia del Graal. La leggenda graalica potrebbe dunque esser letta come la versione medievale, pervenuta attraverso un'eredità celtica reinterpretata in termini cristiani, del racconto archetipico dell'iniziazione di un giovane re-guerriero destinato a ristabilire la prosperità del suo regno, minacciata dalla vecchiaia, dalla malattia e dall'impotenza di un Re Ferito. Un racconto che, con molte variabili, i folcloristi hanno individuato e analizzato nel patrimonio mitico di molte civiltà.
Tuttavia, la scomposizione di un mito e l'analisi dei suoi elementi di base può condurre a una comprensione solo parziale del medesimo in quanto, come si è visto, miti e simboli finiscono per somigliarsi in tutte le civiltà del mondo: all'analisi delle forme sarà dunque opportuno affiancare alcune considerazioni sul contesto più propriamente storico-sociale in cui la leggenda del Graal nacque e si sviluppò.

Il segreto dei Templari

DAL QUATTROCENTO NON SI SENTE PIU' PARLARE DI SANTO CALICE. MA, TRE SECOLI DOPO, LA RICERCA RIPRENDE. FINO AI GIORNI NOSTRI.

Il XII secolo conobbe la grande espansione di sovrani angiomo-plantageneti. Pur regnando in Inghilterra, essi avevano vasti feudi in Bretagna, in Normandia e nell'Anjou; il che li rendeva vassalli dei re Luigi VII di Francia. Il matrimonio tra Enrico II ed Eleonora d'Aquitania, nel 1152, schiudeva nuove possibilità egemoniche. Il regno di Luigi VII di Francia - che di Eleonora era stato il primo marito - era ormai molto meno esteso di quello di Enrico. A bloccare per il momento le mire della monarchia angioino-plantageneta vi era tuttavia la poca stabilità dell'Inghilterra, dove i Normanni si erano violentemente sovrapposti agli Anglosassoni relativamente da poco.

ATTESTATO DI SACRALITÀ

È in questo contesto che la dinastia angio-francese elaborò il progetto di rintracciare o, se necessario, di inventare elementi di coesione fra le etnie in radici mitiche che fossero in grado di risultare accettabili per i Celti insulari, per gli Anglosassoni, per i Normanni. D'altro canto, le dinastie di Francia e di Germania avevano i loro antenati che infondevano sacralità alle stirpi. La monarchia francese aveva i suoi centri sacrali in Reims, dove si conservava la Sacra Ampolla dell'olio recato dagli angeli con cui si ungevano i sovrani, e nell'abbazia di Saint-Denis, che custodiva l'Orifiamma, il vessillo direttamente concesso da Dio a Carlomagno; l'impero romano-germanico traeva invece la sua sacralità dalla Cappella Palatina di Aquisgrana, dove riposavano le reliquie di Carlomagno, per il quale nel 1165 Federico Barbarossa avrebbe ottenuto la canonizzazione. Occorreva dunque qualcosa in grado di competere con tanta nobiltà: i sovrani celti cristianizzati avrebbero coperto questo ruolo.
Già nell'VIII-IX secolo, l'Historia Brittonum di Nennio aveva nominato un "Arturus Rex" - chiamato in soccorso dal re dei Bretoni Vortiger per contrastare l'invasione dei Sassoni - tra le cui azioni in battaglia si ricorda l'uccisione di 960 nemici. Oggi si tende a ritenere che il suo nome potrebbe venire dal latino Artorios, il che lo farebbe identificare con un funzionario romano - Lucius Artorius - la cui esistenza storica è documentata da un'iscrizione funeraria bretone; il nome era comunque ampiamente attestato in quell'area intorno ai il secolo d.C. Nella seconda metà del X secolo, gli Annales Cambrìae parlavano di una vittoria riportata dai Britanni contro i Sassoni nei 516 o 518, durante la quale un "rex Arturus" avrebbe portato sulle spalle per tre giorni consecutivi la croce dei Cristo.

NELLA VALLE DI AVALON

Le tradizioni arturiane vennero raccolte, ampliate e ordinate verso il 1135 dalla Hìstorìa regum Britannìae di Goffredo di Monmouth, alla quale s'ispirò Guglielmo di Malmesbury per la seconda edizione di un suo scritto, il De antiquitate Glastoniensis Ecclesiae, redatto tra il 1135 e il 1137 e nel quale la leggenda arturiana appare nella sua sostanziale completezza.
L'opera di Goffredo fu ben presto tradotta dal latino nella lingua d'oil per guadagnare rapida circolazione tanto nei mondo angio-normanno quanto in quello francese: a essa s'ispirava nel 1155 il Roman de Brut di Robert Wace, dedicato a Eleonora d'Aquitania, nel quale si descriveva la Tavola Rotonda, intorno alla quale i cavalieri prendevano posto. Essi avevano alla Tavola un seggio, ciascuno identico agli altri e venivano serviti alla stessa maniera in segno di uguaglianza di condizione. Per Artù si inventò anche un centro sacrale, l'abbazia di Glastonbury nel Somerset, da contrapporre ad Aquisgrana e a Saint-Denis: nel 1191, nel corso della terza crociata, fu addirittura annunciato il rinvenimento delle tombe del Re Artù e della regina Ginevra e, di conseguenza, Glastonbury fu identificata con la leggendaria terra di Avalon.
Entro la metà del Duecento, quindi, la "cerca" del Graal era un tema letterario ormai noto e ricco di varianti: suo oggetto, la ricerca del misterioso e prodigioso vaso da parte dei cavalieri della Tavola Rotonda. A essa l'autore anonimo della Queste - forse influenzato dalla mistica cistercense - aveva fornito un esito mistico, eucaristico e cristologico. Il puro eroe della Queste, Galahad - figlio di Perceval e della principessa del Graal - è in effetti un typus Christi. Con l'aiuto anche dei testi evangelici apocrifi, si era andato così tessendo un "romanzo del Sacro Calice", che coinvolgeva le leggende relative a Pilato, all'imperatore Vespasiano, alla reliquia romana dell'immagine del volto di Gesù (la "Veronica"), e dove soprattutto si narrava come Giuseppe d'Arimatea, ereditato il Graal, lo avesse affidato a compagni sicuri ed esso fosse finito in «una terra verso Occidente [...] ancora tutta selvaggia», nella valle di Avalon. Dalla generazione di Bron, cognato di Giuseppe di Arimatea, sarebbero discesi i "Re Pescatori", detti così perché avrebbero pescato quel pesce - un richiamo simbolico all'ICHTYS: il Cristo-Salvatore - necessario al rito del Graal.
Attraverso il "romanzo" di Giuseppe d'Arimatea, la Terrasanta e la terra di Avalon, identificata con l'Inghilterra angionormanna, si collegavano strettamente fra loro. D'altro canto, lo stesso stava avvenendo sul piano della realtà storica proprio a partire dalla seconda metà del XII secolo, quando i sovrani d'Inghilterra e molti loro vassalli continentali - fra cui i Lusignano, pretendenti alla corona di Gerusalemme - cercavano di porsi alla guida della crociata. Le avventure crociate in Terrasanta, a loro volta, avrebbero rinforzato in Occidente proprio nei secoli XII-XIII il culto eucaristico - così importante nella formazione della leggenda dei Graal - legato a miracoli come quello del Santo Sangue di Bolsena (che dette luogo alla fondazione della cattedrale di Orvieto) e alle importazioni di reliquie illustri provenienti dalla Terrasanta e dal saccheggio crociato di Costantinopoli del 1204: tra le molte, vanno ricordate almeno le reliquie della Passione per ospitare le quali Luigi IX fece edificare a Parigi la Sainte-Chapelle.

REVIVAL ROMANTICO

Nel 1485, Thomas Malory, cavaliere e avventuriero inglese, pubblicava la Morte Darthur, un romanzo-fiume in cui si riassumeva e si elaborava ancora una volta la materia del ciclo di Artù, dei cavalieri della Tavola Rotonda e del Graal. Da allora, il mito che tanto aveva dato alla poesia medievale sarebbe tramontato per circa tre secoli.
Fino ai Romanticismo, infatti, il Santo Graal sarebbe scomparso. La letteratura cavalleresca, che pure conobbe revivals e rielaborazioni, seguì altri percorsi. Il mito carolingio era tenuto in vita dall'impero asburgico e dalla monarchia francese che se ne contendevano l'eredità morale e spirituale; e le gesta dei paladini di Carlo in lotta contro i musulmani sembravano rinverdite dalla lotta contro i Turchi ottomani. Al contrario, la letteratura arturiana e graalica segnava il passo: troppo "sospetta" tanto per il cattolicesimo della Controriforma, quanto per l'austerità dei mondo protestante, entrambi preoccupati dalle molte ambiguità di stampo celtico e cortese.
Bisognò aspettare il tardo Settecento perché il Medioevo tornasse in auge, insieme alle fonti celtiche e germaniche, alle atmosfere gotiche di Ossian, alle radici della cultura europea. Nell 777, Christof Martin Wieland aveva elaborato una rinnovata versione della storia del mago Merlino; nella Parigi napoleonica del 1803-1804, Friedrich Schlegel teneva un ciclo di lezioni dedicate all'antica letteratura francese, mentre a Lipsia usciva appunto l'opera del Wieland edita da lui e dalla moglie Dorothea Mendelssohn.
Nel 1792, Walter Scott studiava e annotava il romanzo di Malory, mentre nel 1808 introduceva citazioni dal «ciclo vulgato» nel primo "canto" del suo Marmion. Non casualmente, quell'Inghilterra che più aveva promosso la letteratura arturiana riscopriva interesse per questa materia. Nella prima metà dell'Ottocento vi furono molte riedizioni e riduzioni dei poemi arturiani, mentre veniva riscoperta anche la raccolta dei Mabinogion celtici. È dell'842 la prima apparizione a stampa del Sir Launcelot and Queen Guinevere, della Morte d'Arthur e del Sir Galahad di Alfred Tennyson, mentre fra 1849 e 1862 gli affreschi di William Dyce nel palazzo di Westminster illustravano anche, tra le altre cose, la visione di Galahad.

DA WAGNER ALLA NEW AGE
La cultura romantica britannica, e in particolare la produzione preraffaellita, si configurava quindi come profondamente segnata dai sogni cavallereschi, nei quali il Graal assumeva ora una connotazione mistico-religiosa, ora invece una etico-misterica, con accenti erotici purificati in termini spirituali, secondo i dettami - sia pur trasfigurati - della cultura cortese. Tra 1857 e 1858, la Oxford Union venne decorata da pitture di argomento arturiano eseguite da Dante Gabriel Rossetti, da Edward Burne-Jones, da William Morris.
Tutte queste tendenze parvero aggregarsi ed esaltarsi nell'opera di Richard Wagner, che più di ogni altra consegnò il mito del Graal al Novecento attraverso il Lohengrin e soprattutto il Parsifal, ispirato da Wolfram von Eschenbach, che fu rappresentato per la prima volta nel 1882 a Bayreuth. Non c'è dubbio che Tennyson, Scott, i preraffaelliti e Wagner abbiano accostato il pubblico moderno al Graal: non certo i romanzi medievali, che sono restati una lettura familiare solo agli specialisti.
Nel corso del Novecento si è verificato un caratteristico intrecciarsi e sovrapporsi fra le istanze della ricerca scientifica attorno al mito del Graal e l'interesse suscitato dal tema negli ambienti occultistici e mistico-esoterici. Nella Parigi fin de siècle, invasa dall'entusiasmo per l'occultismo, si agitavano numerosi gruppi che pretendevano di rifarsi ai Templari e ai Rosa-croce e che erano in contatto con ambienti massonici, senza tuttavia sovrapporsi mai del tutto con essi. Un elemento catalizzatore di queste tendenze fu un artista, Joséphin Péladan, che nel 1890 - dopo un viaggio a Gerusalemme - guidato da un impulso mistico, fondò un "Ordine Cattolico della Rosacroce, del Tempio e del Graal", dal quale nacque il "Salon de la Rose-Croix"; un gruppo che si poneva, sia pur in modo defilato, all'interno del movimento simbolista. Frattanto il folclorista inglese Alfred Nutt e, soprattutto, la sua allieva Jessie Ledley Weston interpretavano la leggenda del Graal come il disvelamento di una "Chiesa del Graal", alternativa a quella ufficiale e di essa più autentica e propriamente cristiana, sul modello dell'etica templare. Forzando un po' il testo di Wolfram von Eschenbach, si sosteneva che egli avesse affidato ai Templari il ruolo di "guardiani del Graal". Alla base della dottrina templare vi sarebbe stata, quindi, la conoscenza del "segreto del Graal", riconducibile, attraverso la tradizione gnostica, ai miti e ai riti connessi con la fertilità e la morte e rinascita della vegetazione; quindi ai culti di antiche divinità quali Attis, Adone e Mitra. È a causa di questi studi che leggenda templare e mito del Graal si sono presentati inestricabilmente uniti sino ai nostri giorni, in una visione d'insieme, ricca di variabili e non priva di aspetti tra il ridicolo e il fantastico, ma che nel corso del secolo ha influenzato l'arte, la letteratura esoterico-occultista, ambigue frange politiche e sette pseudo e parareligiose. Oggi, ambienti vicini alla New Age sembrano aver ripreso ed elaborato i cascami moderni di queste leggende, sforzandosi di legittimare una loro pretesa antichità.

domenica 5 ottobre 2014

Il mistero del Graal

tratto da http://www.centrostudilaruna.it


"Venerdì santo. Nella cappella dei Cavalieri del Graal, sul “Montsalvat”, Parsifal, il “puro eroe” o “puro folle”, fa ritorno. Egli ha superato l’inconsapevolezza inerente alla sua stessa innocenza primitiva. Egli ha resistito alla lusinghe “delle fiori” e di Kundry, la bella creatura del mago Klingsor, che ottiene redenzione attraverso l’amore. La lancia del Graal che il re Amfortas aveva perduto peccando, egli l’ha riconquistata nel castello di Klingsor: è la lancia per la cui ferita sgorgò il sangue di redenzione di Gesù ma che anche piagò Amfortas, l’indegno e il lussurioso che volle accostare il Graal. Questa lancia, ora Parsifal la riporta dunque alla roccia del Graal. Al suo tocco, la ferita ardente di Amfortas scompare e il prodigio del venerdì santo si compie ancora una volta. Il Graal – che è coppa in cui Gesù bevve nell’ultima cena e che raccolse il suo sangue divino – si fa luminosa. Dall’alto scende una bianca colomba – lo Spirito Santo – fra la mistica esaltazione dei Cavalieri del Montsalvat".

Questa – come tutti sanno – è la trama del dramma mistico di Riccardo Wagner: solo attraverso il quale i più sanno qualcosa circa la leggenda del Graal. Dramma mistico al cento per cento, di un devoto languore cristiano che già provocò l’aspra rivolta del Filosofo del “superuomo” della “volontà di potenza”, di Federico Nietzsche, contro il suo amico, Riccardo Wagner. Ma quali sono le fonti da cui Wagner ha tratto il suo dramma? E quali sono le corrispondenze effettive tra tale dramma e quelle fonti?

A tale riguardo s’impone un riconoscimento suscettibile ad estendersi anche al rapporto fra le opere della “Trilogia” wagneriana col contenuto effettivo dell’antica mitologia nordica. Non vi è adeguazione. Non vi è corrispondenza. Wagner ha preso degli spunti per formar arbitrariamente un mondo d’arte e di musica che sta per sé e che, fuor dal suo valor estetico, sotto vari riguardi, fuorvia, più che non propizi, la comprensione vera dei significati più profondi celati nei miti e nelle leggende originarie.

Ciò vale anche per il Mistero del Graal. Le fonti effettive di questa leggenda, provenzali e germaniche, non concordano che scarsamente con i tratti più salienti del dramma wagneriano. Parsifal non è un “puro”, egli ha già conosciuto, e “tecnicamente”, Banchefleur e, in nome della sua vocazione cavalleresca, ha lasciato morire sua madre. Kundry non è una bella creatura demonica strumento di Klingsor ma una vecchia al servigio degli stessi cavalieri del Graal. La lancia non è mai stata rapita. In Wolfram Von Eschenbach il Graal non è una coppa, ma una pietra, e una pietra “luciferina”: in altri testi, è un singolare oggetto che appare e sparisce ed è dotato di proprio movimento senza che nulla nemmeno da lontano possa richiamare il calice dell’Eucaristia. Simboli essenziali, come la spada spezzata e la prova della spada, il re morto o in letargo e la sua resurrezione, sono stati tralasciati da Wagner. E così via. Ma oltre a tutto questo è da dirsi che il contesto dei testi ci mostra che quella del Graal non è una leggenda cristiana che alla superficie, che i suoi elementi costitutivi sono di ben altra natura e retrocedono ben più lontano.

La tradizione cattolica, infatti, nulla sa circa il Graal, e lo stesso dicasi per i primi testi del cristianesimo in genere.

La letteratura cavalleresca fiorita intorno al Graal si affolla inesplicabilmente in un breve periodo, suscita un intenso interesse e poi scompare subitamente: nessun testo è anteriore al primo quarto del XII secolo e nessuno è posteriore al primo quarto del XIII secolo. Onde, l’impressione che si ha è quella di qualcosa di sotterraneo affiorato momentaneamente, ma subito respinto e soffocato da un’altra forza: quasi al titolo di una tradizione segreta che sotto “spoglie strane” tramandava un insegnamento poco riconducibile a quello della Chiesa allo stesso modo che la posteriore letteratura dei cosiddetti Fedeli d’Amore (secondo quanto è risultato dalle ricerche del compianto Luigi Valli), o la stessa letteratura ermetico-alchemica o, infine la tradizione stessa dei Templari. E – si noti – Wolfram Von Eschenbach chiama esattamente i cavalieri del Graal “templeise”, cioè i templari...

Quando agli oggetti che figurano nella leggenda del Graal: una lancia, una coppa che da “nutrimento di vita”, o una pietra che ha il potere di designare i cavalieri atti a rivestire dignità regale – tali oggetti si ritrovano già in tradizioni precristiane. Tutti e tre, ad esempio, figurano già fra gli oggetti simbolici che, secondo una leggenda irlandese, la “razza divina” preistorica dei Tuatha avrebbe portati seco in Irlanda venendo da Avallon, un’enigmatica terra occidentale che forse è la stessa Atlantide del racconto di Platone. Vi è di più. La stessa antica tradizione romana presenta singolari corrispondenze. Numa costituì il collegio sacerdotale dei Salii a custodire un pegno, concesso dal Cielo, della grandezza dell’impero, pegnum imperii. Questi sacerdoti erano dodici – come dodici sono i principali cavalieri che custodiscono il Graal. Essi recavano una hasta o lancea, che è l’alto oggetto custodito, insieme alla coppa, da quei cavalieri. E di tale coppa, o anche della pietra regale, che è il Graal, essi hanno l’equivalente, in quanto ché ciascuno dei Salii ha, insieme alla hasta, un ancile, cioè uno scudo che però il Dumézil ha dimostrato avere il significato di recipiente che fornisce l’ambrosia, cioè un mistico nutrimento, proprio come la coppa del Graal o il recipiente dei Tuatha. E poiché, secondo questa leggenda romana, l’ancile sarebbe stato ricavato da un aerolito, o pietra divina discesa dal cielo, in ciò non solo vi è corrispondenza con la pietra regale o “fatidica” dei Tuatha (pietra che ancora oggi si conserva a Westmister e che è nera, nera come il misterioso lapis niger dei romani), ma vi è anche un motivo che riporta alla versione della leggenda del Graal secondo la quale lo stesso Graal sarebbe stato ricavato da una pietra caduta dal cielo, da uno smeraldo che ornava la fronte di Lucifero prima della sua rivolta. In più, la leggenda riferisce che, sotto tale forma, il Graal fu anche perduto da Adamo, fu riconquistato da Seth, passò in fine nelle mai di Giuseppe di Arimatea, un cavaliere ai servigi di Ponzio Pilato, il quale, dopo la morte di Gesù, lo portò in una regione che in alcuni testi reca enigmaticamente proprio il nome della regione atlantica misteriosa, patria originaria dei Tuatha, la razza divina che già aveva gli oggetti equivalenti a quelli della leggenda del Graal: nell’Avallon, insula Avallonis, l’isola bianca, ille blanche. Da qui si sviluppa un nuovo ciclo di leggende, ove le vicende dei “cavalieri celesti” alla ricerca del Gral si intrecciano con quelle della corte di Re Artù, cioè con motivi che provengono da antichissime tradizioni celtiche, se non anche druidiche.

In tutto ciò si hanno corrispondenze e connessioni che, per chi sa della logica segreta che sempre presiede alla formazione dei simboli tradizionali, non sono affatto casuali o stravaganti. La sostanza originaria della leggenda del Graal si mantiene anche nella sua successiva forma cristianizzata, in quanto ché suo motivo centrale non è più il “peccato” di Amfortas, né la “tentazione” del “puro folle”, non qualcosa di “mistico” bensì qualcosa di essenzialmente “regale” e guerriero: è il motivo del re morto e della spada spezzata da rinsaldare in connessione ad un’impresa pericolosa e mortale proposta ad un eroe, che, riuscendo, si eleva ad una dignità trascendente, contrassegnata da questa singolare formula, che si trova nell’antico testo del Merlin: "Onore e gloria e potenza e gioia sempiterna al distruttore della morte!"


Julius Evola


Articolo intitolato Il Mistero del Graal e apparso sul quotidiano Il Popolo di Roma il 30 marzo 1934. 

martedì 11 giugno 2013

Re Artù passò di qui -Le ultime scoperte,tra leggende e verità

tratto dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 22/7/2001

La leggenda del Re si lega a quella del Graal
Alcune tracce nella Basilica di Bari e nella cattedrale di Otranto

di Manlio Triggiani

Re Artù in Puglia? Le tracce ci sono. Non soltanto la materia di Bretagna, dove si parla appunto di Re Artù e dei dodici cavalieri della Tavola rotonda, è anticipata di un secolo almeno nell’archivolto dei leoni della Basilica di San Nicola di Bari. E questo già è un dato misterioso, soprattutto perché si tratta di una materia di rilievo nordico presente a Bari. Ma tracce ci sono anche a Otranto, porto di grande importanza nell’antichità e nel Medioevo, da dove partivano le navi del crociati dirette in Terrasanta. Punto terminale della via Traiana, fu più volte assalita dalla flotta turca e, nel 1480, sotto i1 comando di Achmed Pascià, conquistata. Vescovo, clero e popolo furono massacrati nel duomo. Due giorni dopo, il 14 agosto, sul collo della Minerva, furono decapitati 800 prigionieri superstiti, poi passati alla storia come i Martiri d’Otranto. La pietra delle decapitazioni e gli ossari delle vittime sono conservati nella cappella dei martiri della cattedrale. Una cattedrale testimone, quindi, di orrendi massacri, sul cui pavimento, realizzato con un grande mosaico di rara bellezza, c’era (e c’è) l’immagine dire Artù.
Il mosaico rappresenta l’albero della vita che si richiama ad antiche tradizioni sapienziali, fra cui quella ebraica. Secondo una leggenda, re Artù guarderebbe una porta e nel guardarla indicherebbe l’accesso a un luogo segreto dove egli riposò tre giorni e tre notti prima di affrontare un combattimento. Forse, si dice, si tratterebbe di una grotta nei pressi del castello di Otranto.
Ma dove è situato, nel mosaico, re Artù? E’ fra i personaggi dell’antico Testamento, in groppa al suo cavallo, con lo scettro, la corona, i calzari a punta. Il Frate Pantaleone realizzò, fra i1 1163 e il 1165, i1 pavimento musivo con un messaggio di carattere cristiano universalista, come in seguito fecero Gioacchino da Fiore, Pietro Abelardo, Bernardo di Chiaravalle. Gli alberi della vita sono tre e si snodano lungo le tre navate della cattedrale. I1 più importante è quello della navata centrale che poggia su due elefanti indiani che raffigurerebbero il Vecchio e il Nuovo Testamento. L’albero simboleggerebbe i1 Cristo (ma molteplici sono le interpretazioni a seconda delle tradizioni cui si fa riferimento) e fra i rami dell’albero sono rappresentati pagani, musulmani, ebrei, cristiani e personaggi della Bibbia: Noè, Abramo, re Salomone e la regina di Saba, A1essandro Magno, in Artù e tutto il creato: angeli, piante, animali. Insomma, l’albero come summa, come punto di incontro fra l’uomo e Dio.
Ma secondo un’altra lettura del mito di re Artù, Frate Pantaleone inserì questo personaggio in quanto richiama la ricerca del Graal, secondo il duplice significato di vaso sacro, simbolo di fede, e libro di pietra, simbolo di conoscenza. Nel XII secolo ricomparve la leggenda del Graal nella versione cristiana di vaso sacro che Gesù Cristo avrebbe utilizzato nell’ultima Cena o vaso sacro nel quale Giuseppe d’Arimatea raccolse i1 sangue fuoriuscito dal costato di Gesù. E la cerca del Graal ricorre nella letteratura della materia di Bretagna in quanto era uno dei maggiori ideali cavallereschi (si veda, di autori vari, il codice segreto del Graal; edito da Newton e Compton e, sempre di autori vani, Luce del Graal dalle edizioni Mediterranee). E si richiama a una simbologia molto particolare: il re Artù, come si vede nel mosaico, combatte contro un gatto. Per ritrovare il Graal bisognava essere puri e, come gli autori del Medioevo hanno tramandato, re Artù non era puro e perciò fu assalito dal gatto di Losanna, simbolo del male, del peccato. Proprio sotto le zampe posteriori del cavallo di re Artù, nel mesaico,si vede l’esito della lotta: re Artù viene disarcionato e ucciso dal felino. Sopra il re c’è un personaggio nudo, che rappresenta l’uomo puro, nuovo: si tratta di Galaad che nasce dalla morte di Artù ed è destinato a conquistare il Graal. Dal punto di vista della tradizione cristiana Artù e i dodici cavalieri simboleggiano Gesù e i dodici apostoli, Gesù, del resto, venne "per salvare l’uomo ma si addossò il peccato e da esso fu ucciso". Artù e Galaad, quindi, rappresenterebbero la morte e la rinascita, la cerca e il ritrovamento (su questo si veda di Gardner, Le misteriose origini dei re del Graal, edito da Newton Compton).
Otranto era i1 punto di incontro fra le civiltà latina e greca. Poi segui l’invasione longobarda e la città rimase fedele ai bizantini, ma la successiva occupazione normanna riaffermò la cultura occidentale senza cancellare quella greca. Un crogiuolo di culture simili, europee, che arricchirono questa importante città e la sua cattedrale, la più orientale d’Italia.