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domenica 29 marzo 2020

REX ARTURIUS La stirpe dei sacerdoti

 Di Andrea Romanazzi

Abbiamo parlato in altra sede del culto unico della dea madre, di come esso fosse in stretta relazione con il culto solare, e di come tali culti fossero il retaggio di un culto ancora più antico e dimenticato: il culto della Luna. Gli antichi sceglievano come luoghi sacri a tali culti particolari punti in cui si sviluppavano e si sviluppano tuttora energie telluriche notevoli, abbiamo chiamato tali punti "nodi vibranti" già che tali energie si basano sul concetto di vibrazione il cui ricordo ritroviamo nella cultura egizia, in particolare nei culti isidei, nelle cosi’ dette "parole di potenza".

Sempre seguendo la nostra ricerca abbiamo trovato, poi, il "simbolo" di questa religione, il Graal, considerato, sia oggetto materiale sia metafora del ventre della dea Terra.

A questo punto ci chiediamo chi erano i "sacerdoti di questo culto? Quanti ce ne sono stati in passato?

Ed ecco che per rispondere alle nostre domande dobbiamo tornare alla "materia di Bretagna" e alla figura di re Artù.

Diverse sono le ipotesi sull’origine etimologica di Artù, Il nome potrebbe derivare dai termini celtici ART (roccia) o ARTH GWYR (uomo orso), Artù fu citato come personaggio storico solo nel X secolo d.C., ma le tradizioni lo portano indietro fino al V VI secolo. Nel 600 viene composto un poema epico, GODODDIN,il suo autore cita in un interessantissimo passo un guerriero che "forni' cibo ai corvi presenti sui bastioni senza essere un ARTU'.Che significa questa frase? Esisteva più di un artù? Se così fosse ciò giustificherebbe alcune contraddizioni temporali che caratterizzano il re celtico.Alcuni pensano che il termine artù, nato da un primo mitico re, fosse un titolo che veniva preso da tutti i suoi successori, un po' come il titolo di Cesare per i romani. Questo giustificherebbe le varie discrepanze di tempo che vi sono su tale figura, anzi, poiché re artù venne legato alla mitica impresa di recupero del graal, può essere che tutti quelli che erano designati a tale missione prendessero tale titolo. Per alcuni, Artù è un personaggio ispirato a Cu Chulainn , protagonista di poemi epici irlandesi e il nome potrebbe derivare dal latino Artorius  (in tal caso Artù era forse un Comes Britanniarum , ovvero un rappresentante locale dell'Impero Romano e quindi ancora piu’ che un nome reale rappresenterebbe un titolo).Ancora la figura di Artù la troviamo nella Vita di San Colombano, santo legato alla scoperta del nuovo continente,(VIII secolo) ove l’agiografo Adomnan da Iona nomina Un principe britanno chiamato "Arturius figlio di Aedàn mac Gabrain Re di Dalriada" .

La ricerca delle prove storiche dell'esistenza di Artù continua, appassionata e ininterrotta, fin dal 1190, quando i monaci di Glastonbury identificarono la loro Abbazia con la mitica Avalon, ove il sovrano era stato trasportato dopo essere stato mortalmente ferito a Camlann.

Artù diventa protagonista o comprimario di narrazioni gallesi intorno al 600 d.C.; in un poema del ciclo Gododdin è descritto come un guerriero invincibile, in un altro Artù discende agli inferi per recuperare un magico calderone, e qui ritroviamo metaforicamente sia il culto ctonio (la grotta) sia il simbolo della coppa. Comunque solo Verso il 1190 Chretien de Troyes, nel poema Perceval le Gallois ou le Conte du Graal, introdusse nella "materia" il tema della del Graal.

L'epopea arturiana venne definitivamente messa a punto, poi, da , Sir Thomas Malory. Nel frattempo appare un’altra figura:infatti Gran consigliere del re è il druido Merlino, che fa concepire lo stesso artù con l’inganno.Ma chi era Merlino?

La denominazione Merlinus venne utilizzata per la prima volta da Geoffrey di Monmouth nell'Historia Regum Britanniae, nelle Prophetiae Merlini e nella Vita Merlini,
Il Merlino storico visse probabilmente nel VI secolo; era un Bardo gallese - identificato da alcuni storici con un altro famoso Bardo, Taliesin - specializzato in testi profetici. La sua vita - almeno secondo le incerte cronologie del basso medioevo - fu incredibilmente lunga, tanto che certi commentatori ritengono che siano esistiti due Merlini diversi.. Della produzione letteraria di Merlino resta un solo frammento dell'opera Afallenau: la strofa di una profezia in un arcaico dialetto gaelico che nessuno è mai riuscito a tradurre:

Saith ugein haelion a aethant ygwyllon
yng koed Kelydon y daruyant:
kanys mi vyrdin wedy Taliessin
Byathad kyffredin vyn darogan

Fu il Vescovo Alessandro di Lincoln a richiedere a Geoffrey di "prophetias Merlinide Britannico in latinum transferre", ovvero di tradurre le profezie dal gaelico al latino, e, difatti, le Prophetiae Merlini (che, molto probabilmente, l'autore aveva reinventato) sono precedute da una dedica all'alto prelato. Forse proprio grazie all'autorità del committente, la Chiesa Cattolica considerò Merlino un profeta "cristiano" e degno di rispetto; del resto, nella saga arturiana, è proprio il mago a innescare il processo che permette "al dio Unico di cacciar via i molti Dèi celtici". In realtà la ricerca del dio unico si riferirebbe non già a quello cristiano, ma al culto unico della Dea Madre.

Altro personaggio della saga è Morgan Le Fay e’ un personaggio direttamente derivato dalle divinità Morrighan, Macha  e Modron  la grande madre celtica compare per la prima volta nella Vita Merlini di Geoffrey e aiuta Artù a guarire dalle sue mortali ferite. All’inizio dunque vi è uno ottimo rapporto tra morgana ed artù solo successivamente. Nelle opere tardo medioevali, dimenticate le origini semidivine, viene presentata come una perfida seduttrice,: il prototipo, insomma, della "donna sessuata" - la strega  - aborrita e temuta dalla Chiesa cattolica. Ancora una volta siamo di fronte ad un tentativo di camuffare e confondere le tracce del culto della grande dea che quindi era vicina all’artu’.

Ora dopo questa breve introduzione sul mito arturiano vediamo come la figura di re artù si trovi spesso anche in italia, Alfredo Castelli, nell’"enciclopedia del mistero" presenta la seguente composizione

Lo Re Artù k'avemo perduto
Cavalieri siamo di Bretagna
ke vegnamo de la montagna
ke l'omo appella Mongibello.
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire
lo Re Artù, k'avemo perduto
e non sapemo ke sia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra
ne lo reame d'Inghilterra

La poesia, è di un autore duecentesco noto come Gatto Lupesco,un nome piuttosto pittoresco che ricorderà da vicino altre simbologie in Italia, legate al mitico rex. La leggenda di Artù nell'Etna è riportata anche negli Otia Imperialia dell'inglese Gervase di Tilbury (XII secolo), il quale l'aveva appresa sul luogo intorno al 1190.

Testimonianze di carattere architettonico si riscontrano nel Duomo di Modena, sul portale della Cattedrale di Bari e nel mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto.

In particolare facciamo un accenno alla cattedrale di otranto.

.il pezzo forte di tal basilica e’ il mosaico, esso rappresenta l’albero della vita che descrive le vicende umane, per la maggior parte sono vicende bibliche, da Adamo ed Eva a Noé…si parte dall’alto fino a scendere verso il basso,ove vi e’ la storia della città di Otranto. La spiritualità del mosaico di otranto e’ di tipo orientale, e’ Dio che scende verso gli uomini e non gli uomini che salgono verso dio.

Sempre nel mosaico troviamo la Scacchiera, simbolo poi adottato dai Templari, essa rappresenta l’ordine cosmico, l’eterna lotta del bene e del male, che non ha mai fine .Anche la scacchiera ha un significato esoterico, il re rappresenta il sole, il principio creatore limitato, la regina (la Donna) rappresenta la Terra, si può spostare in ogni direzione, la torre rappresenta saturno il suo movimento è il quadrato, l’alfiere è giove il trigono, mentre il cavallo indica il cavaliere che deve effettuare il salto per potersi purificare mentre il pedone è l’uomo.Ma non divaghiamo, e arriviamo a re Artu’. Infatti nel mosaico rex Artù è rappresentato in groppa ad una pecora con un gatto (leopardo), che appunto ricorda il nome di "gatto lupesco" che cerca di assalirlo.Potrebbe essere il ricordo della morte di un "artù" in italia?Nei nostri studi nell’Italia misteriosa abbiamo trovato una tomba di un artù, in particolare essa è situata a Roma, ma questa e’ un’altra storia….torniamo al mosaico… A guardar questa scena vi è, forse Parcival ,il cui aspetto e’ particolare, sta in piedi, dritto, bello, si eleva sopra artù e abele, quasi simbolo di chi è degno del cielo. Potrebbe esser proprio Parcival che, dopo il recupero del graal, "sembra raddrizzarsi e riluce di una bellezza sovrumana".

Ma ancora

Le leggende arturiane, cariche di significato esoterico, hanno un "prologo" in Italia, attorno alla figura inquietante di un singolare santo-avventuriero, San Galgano, figura comunque antecedente al mito arturiano e quindi , appunto, che fa pensare ad un significato piu’ profondo della materia di bretagna, la spada nella roccia può metaforicamente rappresentare il Raggio di sole in relazione alla pietra, cioé ancora l’unificazione del culto della pietra col culto solare.

Ma chi era questo San Galgano?

Riportiamo un antico documento sulla vita del santo:


-Dal Codice conservato nella biblioteca Chigiana del Vaticano-

Incomincia la leggenda di santo Galgano confessore:

 "Galgano per natione fu di Toschana, del contado della città di Siena, d'un castello che si chiama Chiuslino lo cui padre ebbe nome Guidotto e la sua madre Deonigia, nato di nobile parentado e di generatione,ma di virtù e sanctità più nobile. Lo quale Galgano fu huomo feroce e lascivo a mmodo che sono e' giovani, implicato nelle cose mondane e terrene. Ma le revelationi di misser santo Micchele arcangelo profetaro ch'elli doveva essere cavalieri di Dio: perciò che cui la dispensatione divina vuole salvare, non é tanto peccatore né involto ne le cose carnali e terrene che lo possino tenere che a Dio non torni.

 Onde, essendo Galgano in questo stato che detto é, cioé innanzi la sua conversione a Dio, sì gli apparbe santo Micchele arcangelo in visione, lo quale affettuosamente addomandava a sua madre che lo dovesse vestire e addornare d'abito di cavaliere; la cui madre a le preghiere dell'angelo acconsentiva, ed elli, essendo così addornato da la sua madre di vestimenta di cavaliere, con efforzati passi seguitava l'arcangelo così come la visione li mostrava.

 E desto e isvegliato che fu dal sonno, la detta rivelatione e visione incontamente l'ebbe manifestata a la sua madre, la quale con ineffabile allegrezza, ripiena di molta letitia, tacitamente quello che la visione significasse considerava. E in questo modo parlò al suo figliuolo, e dixe: "Figliuol mio, buona é la tua visione e ammirabile, e perciò non dubitare che grande allegrezza significherà, con ciò sia cosa che io sia vedova, e tu sia orfano rimaso dopo la morte del tuo padre. Onde sappi che noi saremo raccomandati a la custodia e guardia del beato santo Micchele a ccui lo tuo padre, quando viveva, spetiale e singulare reverentia e devotione aveva sopra tutti gli altri santi".

 Passati che furono alquanti anni, pensando Galgano nell'animo suo che fine avarebbe la detta visione e revelatione, lo detto arcangelo anco si apparbe in visione a Galgano e dixeli: "Seguitami". Allora Galgano, con esmisurata allegrezza e gaudio levandosi, e desiderando a la detta cavalleria pervenire che ll'arcangelo gli aveva promesso in visione, e con grandissima devotione le pedate e le vestigie sue seguitava insino a un fiume, sopra el quale era un ponte el quale era molto longo e senza grandissima fadigha non si poteva passare, sotto lo qual ponte, siccome la visione li mostrava, si era uno mulino lo quale continuamente si rotava e si volleva, lo quale significava le cose terrene le quali sono in perpetua fluxione e movimento e senza nessuna stabilità e in tutto labili e transitorie. E, passando oltre, pervenne in uno bellissimo e dilettevole prato, lo quale era pieno di fiori, del quale esciva smisurato odore e gratioso. Poi, escendo di questo prato, parveli di entrare sottoterra e venire in Monte Siepi, nel qual monte trovava dodici appostoli in una casa ritonda, li quali recavano uno libro aperto, e che elli lo leggesse ne la qual parte del libro era questa sentenza: Quoniam non cognovi licteraturam, introibo in potentias Domini, Domine memorabur iustitiae tuae solius. Essendo in questa chasa ritonda cogli occhi in cielo, vidde una immagine speciosa e bellisima nell'aire. Unde dimandò che fusse quella immagine, e gli apostoli risposero e dixero: "Quella immagine si è quelli che fu ed era, e che die venire a ggiudicare el mondo, Idio e Huomo". Udito che ebbe Galgano queste parole, meravigliandosi tra sé medesimo de la visione, si svegliò e subbitamente narrò a la madre sua le sopra detta visione, e con esmisurato gemito e pianto di letitia pregò la madre sua ch'ella insieme co llui andasse al luogo de la detta visione, andasse cioè a quello Moonte Siepi, e menasse maestri di pietra e di legname, li quali ine facessero una casa ritonda, come quella che lli mostrò l'arcangelo, a onore de la maestà divina e de' dodici appostoli. Allora rispose la madre, e dixe: "Figliuol mio carissimo, el tempo è ora fuore di stagione, però che è di verno, ed è el freddo grandissimo, ed è la fame grande, e el luogo è agresto, e quasi di non potervi andare ora; ma tosto verrà tempo abile, sicché al tuo desiderio e volere ti potrà satisfare".

E di po' questo, andando Galgano a un castello che si chiama Civitella, el cavallo andando per la via si trattenne, e stette fermo; e speronando Galgano el cavallo con ammenduni gli speroni, e non volendo el cavallo mutarsi né andare più oltre, tornò adietro ad un castello de la Pieve di Luriano, lo quale v'era presso, e ine si albergò. L'altro dì, tornando al detto luogo e passo per andare al detto castello di Civitella, lo detto cavallo in quello medesimo luogo anco si rattenne, e, speronandolo cogli speroni e non potendolo far mutare, si posò la retine sopra lo collo del cavallo, e pregò Idio devotissimamente in queste parole, e dixe: "Creatore altissimo, principio di tutti e' principii, e che facesti lo mondo di quattro elementi, et che lo mondo, per li peccati degli uomini corrotto, per diluvio sì sanasti e purificasti, e che passare facesti lo tuo popolo e seme d'Abram lo Mare Rosso a ppiedi secchi, e che, nel tempo de la plenitudine de la gratia, del seno del tuo Padre nel ventre de la Vergine Maria descendesti vestito de la nostra humanitade, e lo patibolo de la croce, li chiovi, e sputi, e fragellato e humiliato per ricomprarci sostenesti, e lo terzo dì resuscitando da morte a coloro che tti credettero apparisti, e che lo quadragesimo dì in cielo salisti, per cui comandamento e volontà tutte le cose procedono; drizzami ne le tue semite e ne la tua vita e nell'opere de' tuoi comandamenti, acciò che, al tuo servigio devotissimamente stando, lo promesso habito di cavaliere meriti d"acquistare, lo quale ne la visione mi mostrasti; e menami, Signor mio, ne la via de la pace e de la salute, siccome menasti lo tuo servo e profeta nel lago de' leoni, lo quale portasse lo cibo da mangiare a Daniello".

 Finita che fu l'oratione, incontenente senza che altri lo guidasse, e senza che Galgano co li speroni lo pognesse, el cavallo senza endugio si pervenne in Monte Siepi, del quale con grandissima allegrezza si discese da cavallo in quello luogo, dove in visione li dodici appostoli aveva veduti, e, non potendo fare una croce di legname, si prese la spada ch'egli aveva a llato e in luogo di croce su la dura pietra la ficcò, la quale insino al dì d'oggi così è ne la pietra fitta. Poi acconciò il suo mantello a mmodo di veste manacile, e, fatto uno forame nel mezzo a mmodo di schappulare, sel vestì. Di po' questo, diliberando nell'animo di ritornare a ccasa per distribuire a' poveri quello che questo misaro mondo gli aveva dato, la prima volta, e la seconda, e la terza, udì dal cielo questa boce che diceva così: "Galgano, Galgano, sta' fermo, perciò che in questo luogo gli tuoi dì finirai. Non si vuole al principio corrare colui che combatte, ma a la fine".

 Unde Galgano, udito ch'ebbe questa boce, si stette fermo e lassò ogni pensiero di volere dispensare lo suo patrimonio. Et essendo in luogo salvatico, che non v'aveva cosa neuna da mangiare, si discendeva a ppiè del monte e ine sostentava lo corpo suo d'erbe selvatiche, che si chiamano crescioni. Et essendo una notte fra due valli a ppiei di questo monte appiattato fra due carpini, udì lo demonio venire contra di lui, lo quale si ingenia di ingannare ogni huomo che vuol servire Dio. Galgano, come costante e fermo, si uscì contra lo demonio per combattere co llui. Allora, vedendo lo demonio la costantia sua, sì percosse in quel luogo una trave di fuoco, et con grande stridore confuso se n'andò.

 Unde di lì a ppochi dì si propose nell'animo suo di andare ad visitare la basilica degli appostoli, cioè a rRoma, per la visione ch'egli ebbe di loro: et partendo da Monte Siepi pervenne a rRoma, e infinite basiliche di santi sì visitò. Et facendo a rRoma alcuna dimoranza, si vennero alquanti pieni d'invidia al luogo dove la sua spada era fitta, et ine con marroni e altri ferri sì si engegnavano sconficcarla di terra, e con molta fadiga, come a Dio piacque, non potendola sconficcare, sì la ruppeno; et volendola portare co lloro, e non potendo, sì la lassaro così rotta in terra e andavansene. Et andandosene per tornare alle lor case, per divino giudicio ne furono così puniti: e, partiti che furono, e ll'uno cadde in uno fiumicello d'acqua e annegò, e all'altro vene una saetta da ccielo e uciselo, poi venne uno lupo e aventossi addosso all'altro e preselo per lo braccio; e raccomandandosi al biato Galgano, incontanente el lupo fuggì, e non morì.

 Galgano, tornando da rRoma, e trovando la spada rotta, incominciò ad avere grandissimo dolore, e dixe: "Forse perciò permisse Idio che la mi fosse rotta, perch'io lassai el luogo che l'angelo m'aveva mostrato". Sicché, volendo Idio la sua tristizia consolare, una volta e due e tre sì gli apparbe in visione, e mostrogli che dovesse porre la spada rotta in sul pezzo ch'era rimasto fitto ne la pietra, et che la spada starebbe più ferma che innanzi. Allora Galgano così fece, tolse la spada e congionse l'un pezzo con l'altro. La spada fu incontenente risalda, ed é stata così salda insino al dì d'oggi. Dipo' questo, Galgano si fece una cella a mmodo di romito, ne la quale el dì e la nocte vacava in digiuni, e orationi, e meditazioni, e contemplationi, sempre macerando così lo suo corpo. Questa cella era di  legname fatta, ritonda a mmodo di quella che oggi è fatta di pietra, come l'angelo gli aveva mostrato in visione. Galgano contemplava in questa cella, avendo sempre la mente a le cose celestiali, spogliandosi d'ogni atto e cogitatione terrena. Lo suo cibo era d'erbe selvatiche, d'altro non rechedeva lo suo corpo. Contemplava la fragilità di questo mondo, come gli onori e la gloria mondana sono cose fuggitive e caduche e come è breve lo tenpo che ci aviamo a vivere. Et contemplava la vita etterna com'ella è inestimabile e perpetua senza fine. Et vegghiando una notte, e stando in oratione, subito vidde la cella illuminata di tanto splendore che parbe che per mille forami uno razo di sole e di luce risplendesse come fuoco, et entrasse nella cella dov'elli era. Et di questa luce uscì una boce chiara che dixe: "Galgano mio, te' quello che seminasti". Unde, al suono di questa boce stupefatto, e ricordandosi che lo dì del Signore cioè la notte come ladro viene, incontenente, levate le mani al cielo e le ginocchia poste in terra, con boce piena di lagrime dixe così: "Tu, Signore, che tucte le cose sai, a ccui niuno secreto è nascosto, lo quale facesti lo ladrone ch'era su la croce crucifixo partecipe di vita etterna, et che tutti gli huomini del ventre de le madri loro innudi li fai nasciare e innudi li ricevi, e che ogni persona fai ritornare ne la sua propria materia, cioè in cennere, come di cennere e di terra li creasti tu, Signor mio, ricevi me escendo de le miserie et de le cattività di questo mondo, e pericoli, et menami nel porto de la tua tranquillità, e pace, sicché cogli eletti tuoi e nel consortio de' giusti io meriti d'essere gloriato ed exaltato".

 Fatta ch'ebbe questa oratione, l'anima sua si partì dal corpo, e meritò di pervenire a la patria celestiale de' santi di vita eterna.   Visse el beato Galgano in questa heremitica vita et conversione uno anno meno due dì et fu sepolto con grande honore e reverentia ne la detta sua cella, ove poi si fece una chiesa ritonda come l'angelo gli aveva mostrato in visione, ne la quale continuamente gli miracoli sono multiplicati. A laude e gloria del nostro Signore Gesù Cristo, lo quale regna col suo Padre in secula seculorum. Amen."


Questa Vita di Galgano é tratta da un codice quattrocentesco conservato nel fondo chigiano della Biblioteca Apostolica Vaticana nel quale sono contenute una serie di vite di santi. E' stato pubblicato per la prima volta nel libro di Franco Cardini "San Galgano e la spada nella roccia" edito da Cantagalli di Siena che si può considerare uno dei testi fondamentali per la comprensione della leggenda galganiana.

Secondo le tradizioni quindi , Galgano Guidotti, fondatore di un ordine monastico di tipo francescano - era stato cavaliere di ventura e non aveva condotto un vita proprio esemplare.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 1181 - che coincide, peraltro, con la nascita di San Francesco - ,(e anche questo e’ un fatto piuttosto curioso già che il santo di Assisi ebbe numerosi contatti con la figura di Federico II) ,attorno a Montesiepi ed al luogo ove egli aveva infisso in una roccia la sua spada di ex cavaliere convertito al saio, iniziarono a svolgersi eventi ed episodi mai del tutto chiariti, a cominciare dalla costruzione della stessa chiesetta circolare che custodisce, , un frammento di roccia con la spada del santo ancora conficcata in una fessura. Questa chiesetta è, a pianta circolare e già questo è molto strano, infatti questo tipo di pianta ricorda la pianta di templi pagani e nn solo.Infatti molto probabilmente il luogo era già sacro in precedenza e comunque legato a culti e tradizioni celtiche,del resto deve ricordarsi che il più antico nome di Montesiepi era Cerboli, che rimanda al Cervo, animale totemico tipicamente celtico, emblematizzato addirittura in una delle principali divinità, Cernumno. Inoltre in un sito vicinissimo a Montesiepi v'è il paesino di Brenna, il quale, oltre il richiamo a Brenno (re celto-gallico) e a Bran (eroe fondatore celtico),

La frettolosa beatificazione del santo, poi, ha tutta l'aria di un "coperchio" messo su un movimento ed un personaggio che le gerarchie dell'epoca dovevano avvertire essere in odore di eresia.. ..

Anche Dante Alighieri menziona Re Artù nel De Vulgari Eloquentia (Arturis regis ambages pulcerrimae, "le bellissime avventure di re Artù"), e, nell'episodio di Paolo e Francesca dell'Inferno, riprende la sequenza del primo bacio tra Lancillotto e Ginevra, uniti dai buoni uffici di Lady Galehaut (Galeotto).La menzione Dantesca non ci sembra affatto casuale del resto Dante era affiliato alla setta dei "Seguaci d’Amore" e ,anche se non in maniera molto precisa conosceva la funzione degli artu’ individuando in Virgilio uno di questi sacerdoti e come noi sappiamo,non aveva sbagliato.

-LA MITICA AVALON-

Strettamente legata al miti arturiano e’ l’isola di Avalon, mitico luogo da dove provennero i Thuatha de Danann e ove, secondo la leggenda fu seppellito il primo Artù.

Il nome Avallon deriva dal cimrico AFAL cioe’ pomo. La figura del pomo, e quindi del legame agricolo fa parte di tutta una simbologia dell’isola che la lega cosi’ di diritto al culto lunare altrimenti poi detto della dea Madre.

Avalon dunque significa "terra dei pomi", ma il nome Avalon riporta da vicino a Ablem\Belem che sarebbe l’equivalente celtico di Apollo e quindi ritroviamo anche qui il dualismo Terra-Sole di cui abbiamo già parlato. Un altro nome di Avalon era la "terra degli immortali" O, detta anche Tir na n’-og , "paese della giovinezza".

Sempre secondo le leggende celtiche simbolo della terra iperborea e’ anche l’ ALBERO D’ARGENTO CHE RECA IL SOLE ALL’ESTREMITA’ ( e il simbolo e’ facilmente riconducibile al culto lunare il cui metallo e’ proprio l’argento) LA FONTANA DELLA GIOVINEZZA e LA COPPA ( ovviamente legata al simbolismo tellurico).

E’da Avalon che provengono i Thuatha de Danann , letteralmente "la stirpe della dea Dana " , detta anche ANA la quale nn solo e’ madre ma e’ anche nutrice invisibile.

Potrebbe essere un caso se la madre della Madonna, spesso scambiata con una vergine nera , si chiama proprio ANNA? Quindi da tradizioni iperboriche il nome anna è simbolo di Madre.

Il legame tra Avalon e le terre iperboree dei miti greci è notevole, infatti secondo i miti greci nelle terre iperboriche avevano soggiornato sia Apollo che Artemide, e quindi anche nelle terre iperboriche ritroviamo il ricordo del culto lunare-solare e del dualismo uomo-donna , terra-sole….

Le terre iperboree erano posizionate per i greci nelle vicinanze del polo nord, come del resto il Giardino delle Esperidi. Molti eroi si recarono in siffatto luogo alla ricerca, guarda un po’, delle mele d’oro, che non fanno altro che ricordare la "terra dei pomi" cioé ancora avalon. Molti furono gli eroi che tentarono di raggiungere questo mitico luogo, tra loro Eracle riesce ad accedere al giardino poiché immortale , e non a caso un’altra dizione di avalon e’ quella di "terra degli immortali", qui il nostro erode deve lottare contro tritone e per passare indenne attraverso l’oceano usa la COPPA DEL SOLE (altro riferimento ai miti celtici).

Custode del giardino e dell’albero delle mele d’oro è il serpente Ladone, secondo alcune versioni Eracle uccide il serpente. Abbiamo già esaminato la profonda simbologia dell’uccisione del serpente o del drago da parte di Thot, San Michele e numerosi altri santi…essa non rappresenta altro che la conquista della conoscenza e il saper domare le potenti energie telluriche.

Ma un mito simile lo ritroviamo anche in oriente, con Alessandro Magno , egli raggiunge il famoso regno di Prete Gianni, ove "crescono gli alberi del sole e della luna", dizione che ricorda da vicino l’albero d’argento con il sole in sommità di Avalon e non solo, perché anche nel regno di Prete Gianni e’ presente una fonte della giovinezza, le cui acque ridonavano gioventù e vigore, lo stesso Prete Gianni vi si sarebbe immerso più volte raggiungendo la rispettabile età di cinquecentosessantadue anni.

Cosi’ cercando abbiamo risolto un altro enigma ,un enigma racchiuso tra le mura di Castel del monte.

Infatti ricordiamo il bassorilievo fortemente voluto da Federico II a che rappresenta una scena di caccia il cui protagonista è proprio Alessandro Magno, bene esso rappresenta proprio la "cerca di Avalon" mitico luogo da ove proviene il graal e la religione primordiale!


mercoledì 11 novembre 2015

Nel castello del Re Pescatore

Nota: articolo trovato in rete senza altre indicazioni

ALLE ORIGINI DEL MITO, L'INIZIAZIONE DI PARSIFAL E L'INCONTRO CON PERSONAGGI ENTRATI A FAR PARTE DEL NOSTRO IMMAGINARIO

Giunto al castello del Re Pescatore, dopo una serie di avventure, Perceval, il "giovane ospite", assiste a questa strana processione: «Mentre parlano di questo e d'altro, un valletto viene da una camera, e tiene una lancia lucente impugnata a metà dell'asta. Passa tra il fuoco e coloro che sono assisi sul letto. E tutti i presenti vedono la lancia chiara e il ferro bianco. Una goccia di sangue stillava dalla punta di ferro della lancia. Fin sulla mano del valletto colava la goccia di sangue vermiglio. Il giovane ospite vede tale meraviglia e si trattiene dal domandarne ragione. È perché rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non gli insegnò che non si deve mai parlare troppo? Porre domande sarebbe villania. Non dice parola. Poi arrivano due valletti, tenendo in mano candelabri d'oro fino lavorato a niello. [...] Una fanciulla molto bella, slanciata e ben adorna veniva coi valletti e aveva tra le mani un graal. Quando fu entrata nella sala col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero il chiarore, come stelle quando si leva il sole o la luna. Dietro di lei un'altra damigella recava un piatto d'argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell'oro più puro. Vi erano incastonate pietre di molte specie, le più ricche e le più preziose che vi siano in mare o in terra...».

CODICE CORTESE

Il Perceval di Chrétien de Troyes, che per la prima volta ne racconta le vicende, è una sorta di "romanzo iniziatico". Vi si narra infatti di come il giovane Perceval il Gallese, «figlio della dama Vedova» e abitante nella «Guasta Foresta» - dov'è cresciuto all'oscuro dei costumi cavallereschi giacché la madre (che a causa della cavalleria ha perduto gli altri suoi cari) ha voluto tenerlo al riparo da tale conoscenza - intraprenda la professione delle armi cortesi giungendo, attraverso differenti insegnamenti, a un alto grado di perfezione spirituale. Un giorno, nella foresta, egli si imbatte in alcuni cavalieri: spaventato e affascinato dalla loro bellezza e potenza, pone alcune petulanti domande e, sulla base delle loro risposte, decide di recarsi alla corte di Artù a Carduel, nel Galles, per ricevere dalle sue mani le armi e la dignità cavalleresca. La madre, pur acconsentendo con molto dolore al suo desiderio, gli impartisce alcuni elementari insegnamenti d'etica cavalleresca.
Seguendo in modo maldestro queste indicazioni, il giovane ingenuo, rozzo e selvatico (un "puro folle") giunge alla corte di Artù, uccide il Cavaliere Vermiglio che ha recato offesa al re e riceve i veri insegnamenti sul modo di combattere e sull'etica cavalleresca dal gentiluomo Gornemant de Goort. Questi, in particolare, gli impone di risparmiare sempre il nemico inerme, di astenersi dal parlar troppo, di assistere i bisognosi, di serbare la fede e pregare.
Forte di tali precetti Perceval arriva nel castello del cosiddetto "Re Pescatore", dove ha luogo la misteriosa processione del graal, che si ripete più volte durante il banchetto.
Un graal «tutto scoperto» passa a ogni portata, e il giovane desidererebbe chiedere che cosa significhi la scena e cosa sia quel graal: ma, ben ricordando gli insegnamenti di discrezione impartitigli da Gornemant, non osa porre alcuna domanda.

LA COLPA DI PARSIFAL

Il mattino seguente, il castello è vuoto. Perceval si ritrova da solo; sconcertato, riparte e dal casuale incontro con una fanciulla nella foresta apprende che il Re Pescatore è gravemente ferito: se egli avesse posto la domanda relativa alla natura e alla funzione del graal quegli sarebbe stato risanato.
L'errore di Perceval deriva da una colpa, quella di aver fatto morire di dolore sua madre quando l'aveva abbandonata per dirigersi alla corte del Re Artù.
Dopo altre avventurose vicende - che si intrecciano con quelle di Galvano, un cavaliere della Tavola Rotonda - il giovane gallese perviene a un eremo nel quale incontra un santo anacoreta. Questi gli rivelerà di essere fratello di sua madre e del re al quale è servito il graal, il cui contenuto è un'ostia: «quest'ostia sostiene e conforta la sua vita, tanto essa è santa, ed egli stesso è sì santo che nulla lo fa vivere se non l'ostia del graal».
Dopo questa rivelazione, Perceval resta presso lo zio eremita e si sottopone a una dura penitenza per espiare i suoi peccati. L'educazione cavalleresca del giovane folle si perfeziona così, grazie all'affinamento dello spirito. Per molte pagine il romanzo prosegue parlando delle avventure di Galvano, per poi restare incompiuto.
I pochi versi relativi all'apparizione del graal nel castello del Re Pescatore e quelli successivi, sull'ostia contenuta nel recipiente e della quale il Re Ferito si ciba, hanno segnato profondamente l'immaginario europeo: da allora quel graal è divenuto il Santo Graal, oggetto d'innumerevoli altri racconti, nonché di studi, di polemiche, di riflessioni artistiche, di improbabili leggende.

INCANTESIMO CELTICO

Tra la fine del XII secolo e la prima metà del successivo si andò formando, in Francia e in tutta Europa, un corpus di testi letterari, tanto in versi quanto in prosa, che continuarono e ampliarono - con innumerevoli varianti - il racconto del Graal. Il fatto che la parola "graal" fosse scarsamente comprensibile fuori dal contesto franco-celtico favorì il passaggio del termine da nome comune a nome proprio.
>Si immaginarono le vicende che avrebbero potuto concludere il Perceval di Chrétien e se ne proposero varie "continuazioni" nelle quali si seguivano sia le avventure del protagonista, sia quelle di Galvano. Ma si volle anche chiarire e risolvere il "mistero" del Graal in chiave pienamente cristiana. Per questo se ne narrarono antefatti e vicende più o meno come si era fatto e si andava facendo per la più celebre e gloriosa reliquia della cristianità: la Santa Croce. Così come esiste, redatta nel corso del XIII secolo, una Legenda Crucis che segue la sorte del legno della croce dal Paradiso terrestre sino al Calvario, abbiamo anche una "Leggenda del Graal", che percorre le vicende del santo recipiente dal momento della sua realizzazione in poi.
Intorno al 1200, il piccardo Robert de Boron - non sappiamo se a conoscenza del testo di Chrétien - scrisse in versi il Roman de I'Estoire du Graal, noto anche sotto il titolo di Joseph d'Arimathie. Con Robert, l'atmosfera di incantesimo celtico - la visita al magico castello del Graal, la misteriosa infermità del Re Pescatore che rende il regno esposto ai pericoli e ai malefici, i recipienti e le armi prodigiose, l'eroe destinato a rompere l'incantesimo - scompariva per dar luogo a un racconto ispirato a scritti evangelici apocrifi come il Vangelo di Nicodemo, fondato sulla Passione e sull'Eucarestia. Nel racconto di Robert de Boron si narra, infatti, il trasferimento del Sacro Vaso - in cui Gesù aveva celebrato l'Eucarestia nel corso dell'Ultima Cena - da Gerusalemme in Inghilterra, grazie a Giuseppe d'Arimatea.

LA TESTA SUL PIATTO

All'inizio del XIII secolo appartiene anche il Peredur, un racconto gallese in prosa, che richiama ampiamente il Perceval di Chrétien de Troyes, ma che presenta alcuni elementi distintivi: vi si narra infatti che il Re Pescatore è stato ferito dalle incantatrici di Caer Loyw, che hanno assassinato anche un cugino di Peredur. Il fine delle avventure sembra dunque essere la vendetta di Perceval, con cui infatti si chiude il romanzo.
Il Graal, pur non essendo mai indicato con questo nome, appare al protagonista in modo simile a quanto si è visto per il romanzo di Chrétien; tuttavia, particolare certo non insignificante, esso è presentato come un vassoio nel quale è posta la testa tagliata del cugino di Peredur: «Peredur conversava con lo zio quando vide due uomini attraversare la sala ed entrare in una camera: portavano una lunga lancia dalla cui punta colavano a terra tre rivoli di sangue. [...] Dopo qualche istante di silenzio, entrarono due fanciulle che portavano un grande vassoio sul quale poggiava la testa di un uomo immersa nel sangue...».
Sull'origine del romanzo gallese, il più vicino al Perceval, sono state avanzate diverse ipotesi: derivano entrambi da un'unica fonte scritta comune, poi perduta? Sono varianti di una tradizione orale? Oppure il Peredur non è che una fra le tante rivisitazioni del Perceval?
Tra il 1200 e il 1230 apparvero quattro "continuazioni" in versi del Perceval di Chrétien, tutte d'autore anonimo o d'incerta attribuzione. Della prima abbiamo tre redazioni, diverse l'una dall'altra. Nel testo, ovviamente molto complesso, il protagonista principale non è Perceval, bensì Gauvein. Nella vicenda è presente tanto l'impronta cristiana quanto quella celtico-meravigliosa: probabilmente a causa delle sovrapposizioni verificatesi nel corso di almeno tre decenni.
Nella seconda continuazione - generalmente attribuita a Wauchier de Denain, un autore degli inizi del Duecento che lavorava per i sovrani di Fiandra - il protagonista torna a essere Perceval, ma il Graal è del tutto cristianizzato e viene presentato come il calice che raccoglie il sangue di Cristo. Anche il probabile autore della terza continuazione, Manessier, lavorava presso la Casa di Fiandra; la datazione dell'opera è incerta e va dal 1214 al 1230. Da notare che, proprio nel XIII secolo, il culto della reliquia del Sangue del Cristo era molto forte in Fiandra, specie nelle città di Liegi e di Bruges. È da lì, e da allora, che prese le mosse la festa eucaristica del Corpus Domini. Il testo di Manessier parte dalla seconda continuazione e unisce elementi provenienti da svariati racconti, ma fa emergere anche distintamente il tema della vendetta che domina il Peredur gallese. La quarta continuazione, composta tra il 1226 e 1230, si deve a un certo Gerbert, da alcuni identificato con Gerbert de Montreuil. Come Manassier, anche Gerbert prende lo spunto iniziale dalla seconda continuazione, ma con una impronta più marcatamente cristiana.

GIOIELLO DEL CIELO

Intanto, tra il primo e il secondo decennio del XIII secolo, sul tema interveniva il poeta tedesco-meridionale Wolfram von Eschenbach, il cui Parzival immette nel tessuto simbolico e narrativo impiantato da Chrétien una serie di elementi alternativi che sembrano d'origine orientale, al posto di quelli celtici che la tradizione tedesca riteneva evidentemente estranei. La differenza più evidente risiede nella descrizione stessa del Graal, che viene rappresentato come una pietra preziosa: «Il più bel gioiello del cielo, fonte e meta d'ogni gioia. Questa cosa è detta il Graal, segno d'ogni bene in terra». Per il castello del Graal descritto da Wolfram si sono recentemente proposte identificazioni con una fortezza persiana del Kurdistan o dell'Azerbaigian; ma è ignoto attraverso quale fonte il poeta avrebbe avuto accesso alla descrizione di tali edifici.
Altri romanzi duecenteschi in prosa hanno trattato del Graal. Il franco-settentrionale Perlesvaus è stato datato da alcuni al 1200-1210, da altri al 1230-1240; il testo differisce sostanzialmente rispetto alle altre continuazioni del Perceval e rivela in alcuni tratti un substrato celtico piuttosto marcato.

LA VISIONE DI GALVANO

I personaggi principali del Perlesvaus sono quattro: Perceval (chiamato "Perlesvaus" da Perd-les-vaux, "perde le valli", con riferimento alla perdita dell'eredità e dell'assassinio del padre che innesca la sua volontà di vendetta: tema che dunque lo approssima al Perceval), Lancillotto, Artù e Galvano, al quale spetta la visione del Graal, tema che rivela anche una netta influenza cristiana, nonché una maggior chiarezza rispetto a Chrétien: «D'un tratto, da una cappella uscirono due damigelle: una teneva tra le mani il Santo Graal e l'altra la Lancia dalla cui punta il sangue stillava cadendo nel Santo Vaso. Camminando fianco a fianco entrarono nella sala in cui i cavalieri desinavano con messer Galvano. E l'aroma che si sprigionava dal Sacro Vaso era così soave e santo che essi dimenticarono il mangiare. Galvano osservò il Graal, e gli parve che dentro vi fosse un calice di una foggia rara per quei tempi, e guardando la punta della lancia da cui stillava il sangue vermiglio gli sembrò di vedere due angeli che portavano due candelabri d'oro con i ceri accesi. Le damigelle gli passarono davanti ed entrarono nella cappella. [...] Gli sembra anche che nel Graal vi sia la figura di un bambino. Il capo dei cavalieri gli disse qualcosa, ma Galvano tenne gli occhi fissi davanti a sé e vide che sulla tavola cadevano tre gocce di sangue. [...] Ed ecco che le fanciulle ripassano ancora una volta davanti alla tavola. Ora a messer Galvano sembra che siano tre, e quando solleva lo sguardo gli pare che il Graal sia sospeso in aria e che sopra ci sia un uomo inchiodato a una croce con una lancia conficcata nel costato. Preso da profonda compassione, Galvano non riesce a pensare ad altro che alle tremende sofferenze del Re. Il capo dei cavalieri lo esorta di nuovo a parlare, e gli dice che se non lo farà subito non ne avrà mai più l'occasione, ma Galvano continua a tacere, non lo ascolta e tiene lo sguardo fisso verso l'alto. Allora le damigelle rientrano nella cappella e scompaiono insieme al Santo Graal e alla lancia».

UN ROMANZO FIUME

Il Didot Perceval del cosiddetto Pseudo Robert de Boron è, con il coevo Perlesvaus, il primo romanzo francese in prosa a trattare del Graal. Il testo si presenta come una combinazione tra la queste del Graal e il tema del declino del ciclo arturiano, che l'autore presenta come una trasposizione in prosa del Perceval di Robert de Boron, opera che non ci è mai giunta.
Tra il 1215 e il 1235 furono redatte le anonime Estoire del Saìnt Graal e Queste del Saìnt Graal, entrambe in versi, che finirono con il costituire insieme una specie di "romanzo-fiume" noto come Lancelot-Graal o più semplicemente come «ciclo vulgato» (composto anche dal Merlin, dal Lancelot e dalla Morte Darthur, da cui sarebbero scaturiti fino al Quattrocento continui rifacimenti, fra cui quello toscano della Tavola Rotonda. Nel «ciclo vulgato» il Graal è del tutto cristianizzato alla luce della vicenda di Giuseppe d'Arimatea narrata da Robert de Boron. Nel l'Estoire del Saint Graal è la coppa utilizzata da Gesù nel corso dell'ultima cena; nella Queste la vastità della materia fa sì che l'oggetto appaia in diverse occasioni e sia al centro delle avventure di numerosi personaggi. Ormai, esso sarebbe rimasto definitivamente il calice usato da Gesù nell'Ultima Cena per fondare il rito dell'Eucarestia, poi utilizzato anche dagli angeli per raccogliere il sangue sparso dal Signore durante il suo martirio.

Chi vuol bere a quella coppa?

ALLEGORIA EUCARISTICA, SIMBOLO DI SALVEZZA O DEL POTERE: LA FORZA MAGICA DEL SACRO GRAAL APPARE DENSA DI SIGNIFICATI

Nello sviluppo del ciclo di romanzi del Graal si era dunque evidenziata una graduale prevalenza degli elementi di origine cristiana rispetto a quelli presumibilmente derivati dalla tradizione celtica. L'incompiuto romanzo in versi di Chrétien de Troyes aveva lasciato aperti problemi e interrogativi di ogni genere. Il Peredur, il Perlesvaus e la prima continuazione del Perceval insistevano sul versante celtico; la seconda e la terza continuazione, ma soprattutto il testo di Robert de Boron e la Queste, ci pongono invece dinanzi a un quadro completamente cristianizzato ed eucaristico (sia pure complicato da qualche elemento gnostico); piuttosto defilato il romanzo di Wolfram von Eschenbach, che ambienta il Graal in un contesto orientale. Il significato dei testi del Graal "cristianizzato" del pieno Duecento è sostanzialmente chiaro, mentre più dibattuto è il problema di quale senso dare tanto al corteo del Graal quanto, più in generale, all'intera vicenda che si narra nel Perceval di Chrétien e nelle prime continuazioni.
Alcuni avevano voluto vedere già in questi primi testi un'ispirazione pienamente cristiana: le immagini che compongono il corteo del Graal (in particolare, il Graal stesso e la lancia insanguinata) sarebbero mutuate dall'iconografia cristiana. Il Graal richiamerebbe l'allegoria eucaristica, mentre la lancia sarebbe quella di Longino (il santo leggendario che trafigge il costato del Salvatore, il cui nome deriva forse dal greco longkhè, "lancia"). L'iniziazione di Perceval andrebbe letta come una metafora dell'evoluzione del ceto cavalleresco del tempo: dalla cavalleria mondana della Tavola Rotonda a quella mistica, ascetica e cristiana. L'interpretazione integralmente "cristiana" - che cioè esclude "prestiti" da altri contesti culturali - dei primi testi che parlano del Graal non è tuttavia quella prevalente nella storiografia contemporanea, in quanto appare evidente la presenza di sicuri e abbondanti riferimenti al mondo celtico. Quel che appare, invece, certo è la piena appartenenza degli autori al mondo e allo spirito cristiani: non è credibile l'ipotesi di una sopravvivenza, nella Francia dei secoli XII e XIII, di un culto pagano-celtico, di una persistenza cosciente o di un revival pagano, di un'"Antichiesa" del Graal erede di un qualche sistema mito-cultuale precristiano travestito da leggenda eucaristica.
Gli elementi essenziali che appaiono nella cerimonia del Graal, oltre alla coppa-piatto, sono la lancia e, in un caso, la testa. Vediamo dunque quale può essere il senso complessivo dell'episodio, da una parte, quello dei singoli elementi che lo compongono, dall'altra.

VIAGGIO NELL'ALTRO MONDO

È probabile che la queste del Graal si rifaccia alle avventure nell'aldilà e alla ricerca di oggetti magici di cui la letteratura di derivazione celtica offre frequenti esempi. Secondo l'opinione comune, i Celti che durante il VI-V secolo a.C. occuparono i territori dell'attuale Francia centro-settentrionale, del Belgio, del bacino renano (conosciuti con il nome di "Galli") o delle Isole Britanniche e della Penisola iberica (i Celtiberi), avrebbero lasciato le tracce più evidenti della loro civilizzazione in Irlanda, nel Galles, nella Cornovaglia e nell'Armorica: le aree che meno avevano subito la conquista e l'acculturazione romane. Da queste regioni scaturì un tipo di letteratura in cui emergono diversi tratti culturali di origine celtica; si tratta tuttavia di prodotti tardi, di epoca medievale, che dunque non presentano una tradizione originaria, ma intrecci di tradizioni differenti, in cui gli elementi riconoscibili come "celtici" non sono che uno fra i molti influssi presenti.
La Tavola Rotonda ricalcherebbe una tavola dei festini celtica; a questa "corte" di guerrieri la tradizione celtica ne farebbe corrispondere una parallela nell'aldilà, governata da un re prodigo che dimora in un castello meraviglioso, in cui un calderone magico garantisce universalmente l'abbondanza. Come già detto, l'aventure alla ricerca di oggetti magici (pietre, talismani, coppe meravigliose, armi dotate di straordinari poteri ecc.) nell'Altro Mondo è alla base di molti racconti irlandesi e gallesi, come per esempio quelli detti Mabinogion, composti agli esordi del XIII secolo; l'eroe designato a tale queste deve superare molte difficili prove, in una sorta di iniziazione che gli consentirà l'accesso al misterioso aldilà.

LE FONTI DEL POTERE

Nel Perceval di Chrétien de Troyes uno degli oggetti magici, la lancia - che sanguina per il colpo inferto - ferisce il Re Pescatore, il cui nome potrebbe derivare dall'associazione fra questi e alcune divinità legate all'acqua, come Nuadi e Bran. La ferita rende il re, e specularmente le sue terre, sterili. La "cerca" del Graal, cioè del calderone dell'abbondanza, da parte di un eroe giovane e puro consente il ripristino dell'integrità del sovrano e del regno. La lancia e la coppa sono i segni della regalità: se Perceval avesse chiesto il significato di questi oggetti, avrebbe svelato le fonti del potere regale, ripristinandolo. Inoltre, il Peredur e il Perlesvaus presentano forse alcuni elementi arcaici, vivi nella tradizione orale, ma non ripresi da Chrétien: la testa tagliata sul piatto e la vendetta di sangue che guida l'aventure del protagonista ne sarebbero le prove più evidenti.
L'incertezza nella decifrazione del mito del Graal deriva essenzialmente dalla presenza in culture anche geograficamente lontane tra loro di simboli formalmente molto simili. A metà del IX secolo, al tramonto dell'impero carolingio, il vescovo Audrado di Sens, autore di scritti profetici frutto di visioni, compose un poemetto, il De fonte vitae, dedicatario del quale era lncmaro di Reims, il grande studioso ed ecclesiastico del quale Audrado si sentiva evidentemente debitore. In questo poemetto si narra di un viaggio verso «il luogo più bello del mondo», nel quale scaturisce il Fonte della Vita alla quale si puà attingere solo se si è in possesso di uno speciale vaso.
Nel contesto del poema di Audrado, i simboli sono chiari: la sorgente è il Cristo "Fonte di Vita"; l'Acqua è il Divino Sangue, sprizzato nella Passione, che rivive attraverso il mistero eucaristico; il Vaso è Io Spirito che consente di attingere al Fonte e di bere, entrando in piena comunione, materiale e spirituale, con il Cristo.
Le fonti cui Audrado si ispira sono anzitutto bibliche ed evangeliche - dal Cantico di Salomone all'Apocalisse - ma anche classiche. Attraverso la cultura classica - mediata da autori come Boezio, Venanzio Fortunato e Alcuino - giungevano ad Audrado echi della tradizione greca e di quelle orientali, che erano peraltro presenti anche negli stessi testi vetero e neotestamentari.
Il calice e la coppa, insomma, sono dei veri e propri grandi archetipi, densi di significato presso tutte le culture del mondo eurasiatico-mediterraneo.
Nei Salmi biblici il cantore offre a Dio la coppa della salvezza e riceve da lui quella delle benedizioni o del castigo; il Vangelo parla del calice del dolore; al contrario, la coppa che trabocca è simbolo di gioia e di abbondanza (proprio come nella tradizione celtica). Nell'Apocalisse, infine, sono menzionate le coppe ricolme dell'ira divina.

FINESTRA SULL'UNIVERSO

Ma la coppa è centrale anche nei riti vedici e nelle liturgie brahmanico-induiste; mentre nella tradizione islamo-persiana. Il mitico re Gemshid possiede una coppa nella quale si può vedere l'intero universo: coppe e bacili sono infatti strumenti abituali per i riti divinatori come per l'elaborazione di potenti filtri. Quest'idea della coppa come sede di potenza e di sapienza si ritrova nella tradizione islamca della mistica sufi, allorché a una coppa è paragonato il cuore dell'arif (cioè il saggio, l'iniziato) Spieghiamoci meglio: nell'Avesta, il libro sacro deillo zoroastrismo, il segno visibile della regalità solare, lo xvarenah, da cui hanno origine le tre funzioni sociali - studiate da Georges Dumèz per gli indoeuropei e da Georges Duby nel Medioevo occidentale -, cioè i sacerdoti, i guerrieri e i produttori, è detenuto dal sovrano primordiale Yimi Xshaàta. Questo sovrano è identificato nella tradizione islamica, nella quale, con la conquista della Persia, molti miti iranici sono confluiti con l'eroe civilizzatore Gemshid, che altri non sarebbe se non il Salomone biblico, il fondatore del Tempio sulla roccia del monte Moriah. E a Gemshid-Salomone apparterrebbe appunto l'oggetto magico e regale della prodigiosa coppa "che mostra il mondo".
Ritroviamo coppe e bacili come simbolo di potere o come oggetti magici anche nella tradizione greca. Ma è nel mondo germanico che la coppa ha certamente un significato di trasmissione della sovranità. Per esempio, si conserva nel tesoro del duomo di Monza il calice che la regina Teodolinda avrebbe offerto ad Agilulfo, da lei prescelto nel 590 alla successione del defunto marito Autari, come simbolo del passaggio del potere regale.

LANCIA DI FUOCO

Allo stesso modo, nel sistema mitico-simbolico celtico la coppa emblema di regalità e il bacile-calderone dell'abbondanza e della conoscenza, appartenente al dio Dagda, si sovrappongono; le leggende testimoniano come la coppa colma di idromele o di vino offerta da una ragazza - ricordiamo che nel Perceval di Chrétien è una donna a portare il Graal - a un candidato al trono sia il segno della sua elezione e la coppa più bella e preziosa sia l'offerta atta a celebrare l'eroe, il più valoroso fra i guerrieri. Si può dunque ipotizzare che la coppa come simbolo al contempo di regalità e di abbondanza sia un archetipo delle culture indoeuropee.
Al pari della coppa, anche la lancia è un intenso e diffuso simbolo. Una coppa e una lancia (quella di Longino) sono entrambi simboli della Passione, ed è la loro presenza associata a suggerire che la "processione del Graal", descritta da Chrétien de Troyes nel Perceval, abbia un significato anzitutto eucaristico.
Ma la lancia è a sua volta simbolo di sovranità. Da essa deriva lo scettro, e in greco il termine sképtron (verga, lancia, scettro) si associa al concetto di "fulmine" e ha valore magico quale strumento al tempo stesso di salvezza e di perdizione: come la lancia di Achille che - non diversamente dalla clava del dio celtico Dagda - poteva al contempo ferire e guarire. Conosciamo, per i Longobardi, un chiaro uso della lancia come simbolo supremo di regalità: il gesto di afferrare la lancia, nel corso della saga longobarda, è il simbolo del passaggio del potere quando i legami di sangue nella successione regale vengono a mancare, secondo il modello esemplato dalla vicenda del mitico re Lamissione, distintosi già nell'infanzia per aver afferrato la lancia protesa verso di lui dal sovrano Agilmundo.
Nella mitologia celtica la lancia è attributo del dio Lug, che la prende dalle mitiche "Isole del mondo": è una lancia di fuoco che infligge colpi mortali, dunque è prossima al fulmine. La stessa arma compare nelle mani di molti fra i guerrieri mitici della tradizione celtica, come Cuchulainn e suo fratello Conall.

IL SACRIFICIO DI BRAN

Un motivo di origine celtica è quasi sicuramente la testa tagliata e recata nel piatto-Graal che appare nel Peredur, anche se tale immagine in ambito cristiano non poteva non ricordare la decollazione di San Giovanni Battista. Troncare la testa ai nemici era abitudine comune per i guerrieri celti; l'atto aveva un significato rituale e cultuale, oltre che semplicemente guerriero. Lo si deduce, per esempio, dall'episodio del Mabinogion noto come Branwen, figlio di Llyr: il protagonista, Bran il Benedetto, ferito, ordina ai suoi uomini in difficoltà di mozzargli la testa che li accompagnerà e li guiderà nel corso di un lungo viaggio; quando infine viene sepolta essa è talmente potente da allontanare ogni calamità dalla terra in cui giace. Il costume sopravvisse fino ai primi secoli della cristianizzazione: nella Vita del vescovo - e poi santo - Germano di Auxerre si racconta, ad esempio, che prima di abbracciare il cristianesimo egli fosse solito sospendere, secondo l'antico costume pagano, le teste degli animali cacciati ai rami di un albero sacro; l'impiccagione rituale, d'altronde, era costume dei Germani e degli Scandinavi, che sacrificavano così al dio Wotan/Odino. Il tema della testa tagliata e del valore della testa (e del cranio scarnificato) sul piano magico è ben noto in molte culture, soprattutto - ma non soltanto - indoeuropee e uraloaltaiche. Il fatto che in area eurasiatica si ricavassero coppe dai crani dei nemici uccisi (come nel noto episodio di Alboino e del re dei Gepidi narrato da Paolo Diacono) collega il tema del sacrificio con quello della regalità, del potere e dell'abbondanza: i temi del Graal.
Possiamo dunque affermare che il duplice significato dell'abbondanza e del potere-regalità connota con una certa costanza gli oggetti che compongono la cerimonia del Graal. La leggenda graalica potrebbe dunque esser letta come la versione medievale, pervenuta attraverso un'eredità celtica reinterpretata in termini cristiani, del racconto archetipico dell'iniziazione di un giovane re-guerriero destinato a ristabilire la prosperità del suo regno, minacciata dalla vecchiaia, dalla malattia e dall'impotenza di un Re Ferito. Un racconto che, con molte variabili, i folcloristi hanno individuato e analizzato nel patrimonio mitico di molte civiltà.
Tuttavia, la scomposizione di un mito e l'analisi dei suoi elementi di base può condurre a una comprensione solo parziale del medesimo in quanto, come si è visto, miti e simboli finiscono per somigliarsi in tutte le civiltà del mondo: all'analisi delle forme sarà dunque opportuno affiancare alcune considerazioni sul contesto più propriamente storico-sociale in cui la leggenda del Graal nacque e si sviluppò.

Il segreto dei Templari

DAL QUATTROCENTO NON SI SENTE PIU' PARLARE DI SANTO CALICE. MA, TRE SECOLI DOPO, LA RICERCA RIPRENDE. FINO AI GIORNI NOSTRI.

Il XII secolo conobbe la grande espansione di sovrani angiomo-plantageneti. Pur regnando in Inghilterra, essi avevano vasti feudi in Bretagna, in Normandia e nell'Anjou; il che li rendeva vassalli dei re Luigi VII di Francia. Il matrimonio tra Enrico II ed Eleonora d'Aquitania, nel 1152, schiudeva nuove possibilità egemoniche. Il regno di Luigi VII di Francia - che di Eleonora era stato il primo marito - era ormai molto meno esteso di quello di Enrico. A bloccare per il momento le mire della monarchia angioino-plantageneta vi era tuttavia la poca stabilità dell'Inghilterra, dove i Normanni si erano violentemente sovrapposti agli Anglosassoni relativamente da poco.

ATTESTATO DI SACRALITÀ

È in questo contesto che la dinastia angio-francese elaborò il progetto di rintracciare o, se necessario, di inventare elementi di coesione fra le etnie in radici mitiche che fossero in grado di risultare accettabili per i Celti insulari, per gli Anglosassoni, per i Normanni. D'altro canto, le dinastie di Francia e di Germania avevano i loro antenati che infondevano sacralità alle stirpi. La monarchia francese aveva i suoi centri sacrali in Reims, dove si conservava la Sacra Ampolla dell'olio recato dagli angeli con cui si ungevano i sovrani, e nell'abbazia di Saint-Denis, che custodiva l'Orifiamma, il vessillo direttamente concesso da Dio a Carlomagno; l'impero romano-germanico traeva invece la sua sacralità dalla Cappella Palatina di Aquisgrana, dove riposavano le reliquie di Carlomagno, per il quale nel 1165 Federico Barbarossa avrebbe ottenuto la canonizzazione. Occorreva dunque qualcosa in grado di competere con tanta nobiltà: i sovrani celti cristianizzati avrebbero coperto questo ruolo.
Già nell'VIII-IX secolo, l'Historia Brittonum di Nennio aveva nominato un "Arturus Rex" - chiamato in soccorso dal re dei Bretoni Vortiger per contrastare l'invasione dei Sassoni - tra le cui azioni in battaglia si ricorda l'uccisione di 960 nemici. Oggi si tende a ritenere che il suo nome potrebbe venire dal latino Artorios, il che lo farebbe identificare con un funzionario romano - Lucius Artorius - la cui esistenza storica è documentata da un'iscrizione funeraria bretone; il nome era comunque ampiamente attestato in quell'area intorno ai il secolo d.C. Nella seconda metà del X secolo, gli Annales Cambrìae parlavano di una vittoria riportata dai Britanni contro i Sassoni nei 516 o 518, durante la quale un "rex Arturus" avrebbe portato sulle spalle per tre giorni consecutivi la croce dei Cristo.

NELLA VALLE DI AVALON

Le tradizioni arturiane vennero raccolte, ampliate e ordinate verso il 1135 dalla Hìstorìa regum Britannìae di Goffredo di Monmouth, alla quale s'ispirò Guglielmo di Malmesbury per la seconda edizione di un suo scritto, il De antiquitate Glastoniensis Ecclesiae, redatto tra il 1135 e il 1137 e nel quale la leggenda arturiana appare nella sua sostanziale completezza.
L'opera di Goffredo fu ben presto tradotta dal latino nella lingua d'oil per guadagnare rapida circolazione tanto nei mondo angio-normanno quanto in quello francese: a essa s'ispirava nel 1155 il Roman de Brut di Robert Wace, dedicato a Eleonora d'Aquitania, nel quale si descriveva la Tavola Rotonda, intorno alla quale i cavalieri prendevano posto. Essi avevano alla Tavola un seggio, ciascuno identico agli altri e venivano serviti alla stessa maniera in segno di uguaglianza di condizione. Per Artù si inventò anche un centro sacrale, l'abbazia di Glastonbury nel Somerset, da contrapporre ad Aquisgrana e a Saint-Denis: nel 1191, nel corso della terza crociata, fu addirittura annunciato il rinvenimento delle tombe del Re Artù e della regina Ginevra e, di conseguenza, Glastonbury fu identificata con la leggendaria terra di Avalon.
Entro la metà del Duecento, quindi, la "cerca" del Graal era un tema letterario ormai noto e ricco di varianti: suo oggetto, la ricerca del misterioso e prodigioso vaso da parte dei cavalieri della Tavola Rotonda. A essa l'autore anonimo della Queste - forse influenzato dalla mistica cistercense - aveva fornito un esito mistico, eucaristico e cristologico. Il puro eroe della Queste, Galahad - figlio di Perceval e della principessa del Graal - è in effetti un typus Christi. Con l'aiuto anche dei testi evangelici apocrifi, si era andato così tessendo un "romanzo del Sacro Calice", che coinvolgeva le leggende relative a Pilato, all'imperatore Vespasiano, alla reliquia romana dell'immagine del volto di Gesù (la "Veronica"), e dove soprattutto si narrava come Giuseppe d'Arimatea, ereditato il Graal, lo avesse affidato a compagni sicuri ed esso fosse finito in «una terra verso Occidente [...] ancora tutta selvaggia», nella valle di Avalon. Dalla generazione di Bron, cognato di Giuseppe di Arimatea, sarebbero discesi i "Re Pescatori", detti così perché avrebbero pescato quel pesce - un richiamo simbolico all'ICHTYS: il Cristo-Salvatore - necessario al rito del Graal.
Attraverso il "romanzo" di Giuseppe d'Arimatea, la Terrasanta e la terra di Avalon, identificata con l'Inghilterra angionormanna, si collegavano strettamente fra loro. D'altro canto, lo stesso stava avvenendo sul piano della realtà storica proprio a partire dalla seconda metà del XII secolo, quando i sovrani d'Inghilterra e molti loro vassalli continentali - fra cui i Lusignano, pretendenti alla corona di Gerusalemme - cercavano di porsi alla guida della crociata. Le avventure crociate in Terrasanta, a loro volta, avrebbero rinforzato in Occidente proprio nei secoli XII-XIII il culto eucaristico - così importante nella formazione della leggenda dei Graal - legato a miracoli come quello del Santo Sangue di Bolsena (che dette luogo alla fondazione della cattedrale di Orvieto) e alle importazioni di reliquie illustri provenienti dalla Terrasanta e dal saccheggio crociato di Costantinopoli del 1204: tra le molte, vanno ricordate almeno le reliquie della Passione per ospitare le quali Luigi IX fece edificare a Parigi la Sainte-Chapelle.

REVIVAL ROMANTICO

Nel 1485, Thomas Malory, cavaliere e avventuriero inglese, pubblicava la Morte Darthur, un romanzo-fiume in cui si riassumeva e si elaborava ancora una volta la materia del ciclo di Artù, dei cavalieri della Tavola Rotonda e del Graal. Da allora, il mito che tanto aveva dato alla poesia medievale sarebbe tramontato per circa tre secoli.
Fino ai Romanticismo, infatti, il Santo Graal sarebbe scomparso. La letteratura cavalleresca, che pure conobbe revivals e rielaborazioni, seguì altri percorsi. Il mito carolingio era tenuto in vita dall'impero asburgico e dalla monarchia francese che se ne contendevano l'eredità morale e spirituale; e le gesta dei paladini di Carlo in lotta contro i musulmani sembravano rinverdite dalla lotta contro i Turchi ottomani. Al contrario, la letteratura arturiana e graalica segnava il passo: troppo "sospetta" tanto per il cattolicesimo della Controriforma, quanto per l'austerità dei mondo protestante, entrambi preoccupati dalle molte ambiguità di stampo celtico e cortese.
Bisognò aspettare il tardo Settecento perché il Medioevo tornasse in auge, insieme alle fonti celtiche e germaniche, alle atmosfere gotiche di Ossian, alle radici della cultura europea. Nell 777, Christof Martin Wieland aveva elaborato una rinnovata versione della storia del mago Merlino; nella Parigi napoleonica del 1803-1804, Friedrich Schlegel teneva un ciclo di lezioni dedicate all'antica letteratura francese, mentre a Lipsia usciva appunto l'opera del Wieland edita da lui e dalla moglie Dorothea Mendelssohn.
Nel 1792, Walter Scott studiava e annotava il romanzo di Malory, mentre nel 1808 introduceva citazioni dal «ciclo vulgato» nel primo "canto" del suo Marmion. Non casualmente, quell'Inghilterra che più aveva promosso la letteratura arturiana riscopriva interesse per questa materia. Nella prima metà dell'Ottocento vi furono molte riedizioni e riduzioni dei poemi arturiani, mentre veniva riscoperta anche la raccolta dei Mabinogion celtici. È dell'842 la prima apparizione a stampa del Sir Launcelot and Queen Guinevere, della Morte d'Arthur e del Sir Galahad di Alfred Tennyson, mentre fra 1849 e 1862 gli affreschi di William Dyce nel palazzo di Westminster illustravano anche, tra le altre cose, la visione di Galahad.

DA WAGNER ALLA NEW AGE
La cultura romantica britannica, e in particolare la produzione preraffaellita, si configurava quindi come profondamente segnata dai sogni cavallereschi, nei quali il Graal assumeva ora una connotazione mistico-religiosa, ora invece una etico-misterica, con accenti erotici purificati in termini spirituali, secondo i dettami - sia pur trasfigurati - della cultura cortese. Tra 1857 e 1858, la Oxford Union venne decorata da pitture di argomento arturiano eseguite da Dante Gabriel Rossetti, da Edward Burne-Jones, da William Morris.
Tutte queste tendenze parvero aggregarsi ed esaltarsi nell'opera di Richard Wagner, che più di ogni altra consegnò il mito del Graal al Novecento attraverso il Lohengrin e soprattutto il Parsifal, ispirato da Wolfram von Eschenbach, che fu rappresentato per la prima volta nel 1882 a Bayreuth. Non c'è dubbio che Tennyson, Scott, i preraffaelliti e Wagner abbiano accostato il pubblico moderno al Graal: non certo i romanzi medievali, che sono restati una lettura familiare solo agli specialisti.
Nel corso del Novecento si è verificato un caratteristico intrecciarsi e sovrapporsi fra le istanze della ricerca scientifica attorno al mito del Graal e l'interesse suscitato dal tema negli ambienti occultistici e mistico-esoterici. Nella Parigi fin de siècle, invasa dall'entusiasmo per l'occultismo, si agitavano numerosi gruppi che pretendevano di rifarsi ai Templari e ai Rosa-croce e che erano in contatto con ambienti massonici, senza tuttavia sovrapporsi mai del tutto con essi. Un elemento catalizzatore di queste tendenze fu un artista, Joséphin Péladan, che nel 1890 - dopo un viaggio a Gerusalemme - guidato da un impulso mistico, fondò un "Ordine Cattolico della Rosacroce, del Tempio e del Graal", dal quale nacque il "Salon de la Rose-Croix"; un gruppo che si poneva, sia pur in modo defilato, all'interno del movimento simbolista. Frattanto il folclorista inglese Alfred Nutt e, soprattutto, la sua allieva Jessie Ledley Weston interpretavano la leggenda del Graal come il disvelamento di una "Chiesa del Graal", alternativa a quella ufficiale e di essa più autentica e propriamente cristiana, sul modello dell'etica templare. Forzando un po' il testo di Wolfram von Eschenbach, si sosteneva che egli avesse affidato ai Templari il ruolo di "guardiani del Graal". Alla base della dottrina templare vi sarebbe stata, quindi, la conoscenza del "segreto del Graal", riconducibile, attraverso la tradizione gnostica, ai miti e ai riti connessi con la fertilità e la morte e rinascita della vegetazione; quindi ai culti di antiche divinità quali Attis, Adone e Mitra. È a causa di questi studi che leggenda templare e mito del Graal si sono presentati inestricabilmente uniti sino ai nostri giorni, in una visione d'insieme, ricca di variabili e non priva di aspetti tra il ridicolo e il fantastico, ma che nel corso del secolo ha influenzato l'arte, la letteratura esoterico-occultista, ambigue frange politiche e sette pseudo e parareligiose. Oggi, ambienti vicini alla New Age sembrano aver ripreso ed elaborato i cascami moderni di queste leggende, sforzandosi di legittimare una loro pretesa antichità.

mercoledì 16 settembre 2015

Il Polo e la simbologia del Centro

tratto da Centro Studi la Runa: http://www.centrostudilaruna.it/il-polo-e-la-simbologia-del-centro.html

di Giovanni Balducci

La visione generale della vita dei popoli tradizionali contemplò sempre due idee-chiave, quella dell’Origine e quella del Centro. L’Origine, fu intesa come il momento quasi atemporale in cui il cielo era così vicino alle cose terrestri da renderle per metà celesti; parafrasando Hölderlin si potrebbe indicare quest’epoca come il tempo in cui “gli dèi camminavano assieme agli uomini”. Il Centro parimenti fu inteso come il luogo in cui il mondo divino era entrato in contatto con quello umano per sancire l’Alleanza. Oltre al Centro poi si intese l’esistenza di altri centri spirituali minori, laddove s’era rinnovellata con un determinato ramo dell’umanità l’alleanza primordiale. Non altra cosa rappresentano il leggendario paradiso di Shambala, l’Aryavartha indù, la mitica terra d’origine dei Veda, il Paradiso Occidentale di Hsi Wang per la civiltà cinese, in Oriente, o Atlantide, il Regno del Prete Gianni, il castello di Camelot, l’isola di Avalon, il Montsalvat dei miti di Re Artù, il monte Olimpo, per l’Occidente, se non simboli del Centro primordiale, luoghi in cui la Terra s’era misteriosamente unita al Cielo.


Quanto all’Origine, il Polo Nord è stato da sempre tradizionalmente ritenuto il punto di congiunzione tra la Terra e il Cielo, e la porta degli dèi (1). Per le tradizioni indù, all’estremo Nord si eleva il monte Meru, soggiorno degli dèi, Asse del Mondo, eretto sull’ombelico della Terra, posto sotto la Stella Polare, ombelico del Cielo. Con la sua funzione di asse, di punto di congiunzione, di via verso il Cielo, il Polo rappresenta l’immutabile che si oppone al mutamento, l’Essere al divenire. Nell’esoterismo islamico, l’Asse dell’Universo, il Qutb (2) cosmico è indicato come la dimensione più elevata da dove origina il potere del Qutb temporale, secondo una gerarchia che assicura l’esistenza del potere spirituale attraverso il cosmo.

Per quel che concerne il Centro, nel tantra Kalachakra del buddhismo tibetano si fa riferimento ad una enclave nascosta in un punto imprecisato dell’Asia centrale, che prende il nome di Agarthi, ossia “l’Inaccessibile”. Secondo la descrizione fornita si tratterebbe di un regno protetto da una alta cintura montuosa, al cui interno avrebbe sede il palazzo del suo re-sacerdote, e questo regno è situato in India e coincidente col monte Meru o Polo Nord prima dello spostamento dell’asse terrestre, centro del mondo e terra originaria dell’umanità. Agharti costituirebbe il mozzo, immobile e immutabile, della Dharma Chakra, la Ruota della vita e della legge della tradizione induista e buddista, alla cui rotazione è legato il destino dei mortali. Essa esiste simultaneamente sia sul piano fisico sia sul piano spirituale e solo pochissimi Arhat (Illuminati) hanno la possibilità di accedervi. Ad Agharti si dice che sia nata la religione unica, primordiale e perfetta della cosiddetta “Età dell’Oro”, in grado di porre l’uomo in totale comunione con Dio. Tutte le grandi religioni attuali, infatti, trarrebbero le loro origini dalla religione primordiale di Agharti, così come tutte le tradizioni particolari sono in fondo solo adattamenti della grande tradizione primordiale.

bestie-uomini-deiIl sovrano che regna ad Agharti è chiamato dagli abitanti della superficie Chakravarti (lett. Signore della Ruota) ovvero “Il Re del Mondo” (3), mentre al suo popolo è noto come Brahmatma (colui che ha il potere di parlare con Dio). Egli regna per il periodo di un Manvatara, una delle quattordici ere da cui è composto un ciclo cosmico. Racconta Ossendowski nel suo celebre racconto Bestie, Uomini e Dèi, che “Vaivaswata, settimo e attuale Re del Mondo, è in comunione spirituale con tutti i Manu che hanno regnato prima di lui, tra cui il primo Brahmatma Swdyambhuva”.

La figura del Re del Mondo, da non confondersi con quella del Princeps huius mundi, stante ad indicare il signore di “questo mondo”, cioè Satana, è da riferirsi alla misteriosa figura biblica di Melchisedec, il re-sacerdote che benedisse Abramo. Melchisedec è presentato dalla tradizione giudeo-cristiana come re di “Salem”, nome che tuttavia non designa una città, ma è da intendersi simbolicamente come la residenza di Melchisedec, e dunque può ben indicare “Agarthi”. Melchisedec, che offre in sacrificio a Dio il pane ed il vino è l’istitutore del sacerdozio cristiano, ritenuto da San Paolo nel Nuovo Testamento, superiore al sacerdozio di Aronne, in quanto istituito da un uomo “vivente”, e non da mortali. Questo «uomo vivente», è “Melki- Tsedeq” (Il Re di Giustizia), il “Manu”, che sussiste «in perpetuo», cioè per la durata del suo ciclo (Manvantara). Per questo motivo Melchisedec è definito anche come «senza genealogia», infatti la sua origine «non è umana», rappresentando egli il prototipo dell’uomo; inoltre essendo il Legislatore del mondo (infatti ha una funzione essenzialmente ordinatrice e regolatrice, tali funzioni essendo ben rese dal termine Dharma: con ciò si intende il riflesso nel mondo manifestato del Principio supremo) egli è immagine del Verbo divino, per questo è definito dalle scritture come «fatto simile al Figlio di Dio». È interessante notare come per le creazioni anteriori alla nostra sia stato fatto riferimento ai biblici «sette re di Edom» in rapporto con i sette «giorni» della Creazione, coincidenti con le ere dei sette “Manu” della tradizione indù, contate dall’inizio del “Kalpa” fino all’epoca attuale (4).

Il Re del Mondo non è da ritenersi dunque un semplice capo religioso, ma egli per la sua funzione regale, regge anche i destini materiali del pianeta, dettando il corso della storia secondo un preciso andamento, difficilmente comprensibile e non necessariamente positivo secondo i nostri canoni, in accordo con un ineffabile piano divino. In Mission de l’Inde en Europe (1910), lo scrittore Saint-Yves d’Alveydre sostiene che “il Re del Mondo è il più alto esponente della Sinarchia, una sorta di Governo centrale di uomini di scienza, potentissimo e ramificato, i cui esponenti terreni ispirano e controllano i grandi moti politici o d’altro genere che segnano l’evoluzione del genere umano. Al sovrano non mancano i mezzi per eseguire la propria missione: quando lo desidera egli può infatti mettersi in comunione con il pensiero di tutti gli uomini che hanno influenza sul destino e la vita dell’umanità: re, zar, khan, capi guerrieri, sacerdoti, scienziati. Egli conosce tutti i loro pensieri e i loro disegni; se questi sono graditi a Dio li asseconda, altrimenti li fa fallire”.

tradizione-tradizioniIl Centro di Agharti nel mondo fisico sorgerebbe sul principale incrocio delle correnti terrestri, o forse sarebbe esso stesso a generare questi canali di energia, che percorrono tutto il pianeta diffondendosi in superficie irraggiati dai megaliti. Del resto secondo la geografia sacra, esistono luoghi sul nostro pianeta che costituiscono punti nodali di un reticolo energetico che ricopre tutta la superficie terrestre. In questi luoghi sono stati eretti spesso dei menhir, dei luoghi di culto o santuari, in quanto ritenuti centri di connessione tra la terra, il cielo e gli inferi. Questi centri costituirebbero, infatti, portali di connessione con i mondi infra e super umani. Il principale polo della Grecia antica, Delfi, si presenta a tal proposito molto interessante. Alcune leggende narrano che prima che divenisse una delle dimore di Apollo, vi risiedesse il serpente-drago Pitone. Simbolicamente quest’ultimo rappresenta la materia indistinta primordiale, il caos antecedente la messa in ordine del cosmo. Ciò, simboleggiato astrologicamente dal viaggio di Apollo presso gli Iperborei, durante il periodo invernale, nel quale gli succede Dioniso, principio di vitalità caotica, significa che a Delfi sono presenti i due poli della manifestazione, quello della luce e quello delle tenebre, la cui alternanza indica la vittoria temporanea delle tenebre, prima della restaurazione apollinea. Al pari degli altri centri spirituali, l’ omphalos greco collega i tre mondi: quello dell’uomo, del soggiorno sotterraneo dei morti, e della divinità.

C’è da dire che il mito di una terra perfetta e del suo saggio re ha dato origine a molte delle mitologie evolutesi successivamente in Europa e in Medio Oriente: Manu sarebbe anche il Menes egizio, l’Artù bretone, il Menw celtico e persino l’Arcangelo Michele della tradizione ebraica e cristiana. A tal proposito analizzando il nome di “Melki-Tsedeq” nel suo significato più stretto, gli attributi propri del «Re di Giustizia» sono la bilancia e la spada; gli stessi di “Mikael”, l’«Angelo del Giudizio». Proprio all’Arcangelo Michele sono dedicati molti santuari con la funzione di centri spirituali, dei “betili”. A questo riguardo ci pare opportuno considerare etimologicamente la parola “betile”. “Beth-El” è stata chiamata la pietra che Giacobbe utilizzò per cuscino quando ebbe il sogno profetico, “beth-el” significa letteralmente “Casa di Dio”, un nome che poi verrà esteso all’intera località nella quale egli aveva pernottato. La pietra viene unta con l’olio sacro, “consacrata” ed eretta come stele. Dal termine “beth-el” è derivato poi il greco “betylos”, il latino “betilus” e il nostro “betilo”. Non vi sono dubbi sul fatto che questo betilo possa essere considerato come un omphalos, una pietra sacra eretta su di un luogo ritenuto carico di sacralità. Non è perciò un caso che i centri spirituali sorgano nei pressi di luoghi dedicati al culto di particolari “pietre nere”, ricordiamo a tal riguardo la Pietra Nera della Mecca, la Città Santa della religione musulmana, la pietra conica di Pessinunte, massimo centro del culto di Cibele, la Dea Madre, che fu poi portata a Roma, e posta al centro nel Foro, nel sito ancora oggi chiamato “Lapis Niger”. La pietra simbolicamente rappresenta la Montagna Sacra, o l’Asse del Mondo, ecco che ad essa si lega il significato della frase di Giacobbe «Terribilis est locus iste. Haec Domus Dei est et Porta Coeli» (“Questo è un luogo terribile. Questa è la Casa di Dio e la Porta dei Cieli”) che indicava il luogo dell’Alleanza, frase che per altro affatto casualmente appare scritta su frontoni e architravi di numerose chiese cattoliche, come il Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo in Puglia, ex luogo di culto mitraico (del resto l’apparizione dell’Angelo si racconta sia avvenuta proprio in una grotta, come in una grotta si celebravano i misteri di Mithra), dove è presente anche il simbolo della Triplice Cinta, dei cui significati si è detto in precedenza, e nei pressi del quale si trova un santuario dedicato alla Madonna Nera dell’Incoronata, assimilabile al culto delle “pietre nere”.

Tradizioni su luoghi o culti sotterranei esistono nella maggior parte delle civiltà, ciò ci induce a credere, seguendo anche ciò che costituisce il bagaglio sapienziale di alcune dottrine interiori, fra cui l’alchimia, che la grotta stia a simboleggiare l’interiorità dell’uomo, in cui, proprio secondo la scienza alchemica, bisogna discendere prima di aspirare all’evoluzione spirituale. Tale verità era rivelata dagli antichi alchimisti con l’acronimo V.I.T.R.I.O.L.: “Visita Interiora Terrae Rectificandoque Invenies Occultam Lapidem” (Visita l’interno della terra e rettificando troverai la pietra nascosta).

simbolismo-della-croceNel racconto della Genesi si afferma che il luogo nel quale Giacobbe aveva soggiornato, e che egli aveva poi chiamato “Beth-El”, casa di Dio, era in precedenza chiamato Luz. Questo accenno che sembra così inessenziale nell’economia del racconto biblico, assume invece un aspetto di natura fondamentale se ci si rifà alla tradizione giudaica che vorrebbe l’esistenza di una misteriosa città chiamata “Luz”, dove persino l’Angelo della Morte non ha potere di entrare. Secondo questa tradizione in questa misteriosa città vi sarebbe un mandorlo (è da notare che anche il nome del mandorlo in lingua ebraica è “luz”) nei pressi del quale si trovava l’accesso ad una enclave sotterranea. Il mandorlo produce ovviamente mandorle, frutti aventi la forma di noccioli; proprio il nome di “nocciolo” col significato di nucleo interiore, veniva dato nella tradizione cabalistica ad una particolare particella corporea ritenuta indistruttibile, rappresentata simbolicamente come un osso durissimo, al quale si avviluppava l’anima al momento del decesso. Tale particella veniva in genere localizzata all’interno della spina dorsale, in particolare nel coccige, non a caso chiamato anche “osso sacro”, sede del chakra muladhara, che per la sua importanza è anche detto “chakra della radice”. In questa parte del corpo, secondo la tradizione yogica, risiederebbe la Kundalini, l’energia divina che si ritiene presente in forma quiescente in ogni essere umano, tradizionalmente rappresentata da un serpente arrotolato su se stesso. Tale energia può essere risvegliata attraverso pratiche yogiche o attraverso un’iniziazione. Questo ci riporta alla tipica pratica della tradizione templare dell’osculum sub cauda, il bacio sull’osso sacro (letteralmente, “bacio sotto la coda”), che veniva effettuato durante le iniziazioni all’Ordine del Tempio. Questo rito come è risaputo fu considerato come la prova dello svolgimento di pratiche sodomite all’interno dell’Ordine Templare attraverso cui si giunse alla distruzione dell’Ordine stesso e all’uccisione di Jeacques De Molay, suo ultimo Gran Maestro e dei suoi uomini. Fu per altro proprio in questo frangente che si determinò fattivamente quella frattura profonda tra la tradizione exoterica rappresentata dalla Chiesa Cattolica e quella esoterica rappresentata dall’Ordine Templare, che ha contraddistinto in maniera determinante la storia occidentale dei secoli a venire.

Ritornando alla Kundalini: si ritiene che una volta ridestata, questa forza comincerà a risalire attraverso la colonna vertebrale passando attraverso i sette chakras, giungendo fino all’ultimo di essi, situato all’interno del cranio in corrispondenza della ghiandola pineale, aprendo il Terzo Occhio generando l’Illuminazione interiore. Altresì, così come il nocciolo contiene in potenza la pianta, così il “luz”, l’osso di cui si è detto, conterrebbe in germe la ricostituzione del corpo dopo la resurrezione, costituendo il “nocciolo” dell’immortalità.

Note

1) Parimenti, secondo l’esoterismo islamico al Polo, Quth, si trova la montagna Qaf, il monte della rivelazione coranica. Secondo la tradizione cinese, a Nord-Ovest del mondo si trova il Kouen-Louen, la montagna del centro del mondo, che garantisce a chi vi accede di ottenere l’immortalità e di salire al firmamento. Uno dei nomi usati dai Maya per definire la terra originaria del loro popolo è Aztlan, ossia luogo dell’alba, luogo del biancore. Questo confermerebbe il ruolo del Polo come intermediario fra la Terra e il Cielo.

2) Il termine quṭb è utilizzato nel mondo arabo come termine astronomico, ma può essere inteso anche da un punto di vista spirituale, in via della già citata legge di analogia. Nel Sufismo, Qutb è l’essere umano perfetto, al-insān al-kāmil, che guida le sante gerarchie, il centro o il perno del mondo, ma sconosciuto ai più. C’è solo un Quṭb per ogni era che si pensa sia la guida universale di tutti i santi, il tramite tra il divino e l’umano, la cui presenza è necessaria per l’esistenza del mondo. Un’idea simile è rinvenibile anche nel cattolicesimo, in uno scritto San Bernardo di Chiaravalle afferma che: “L’umanità vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe o per un fulmine o per lo spalancarsi della terra”.

3) René Guénon sostiene che la figura del “Re del Mondo” non designa tanto un individuo in particolare, ma innanzitutto un principio. Questo principio si può poi manifestare in un determinato centro tradizionale e può essere effettivamente rappresentato da una persona: “Tale principio può essere manifestato da un centro spirituale stabilito nel mondo terrestre, da un’organizzazione incaricata di conservare integralmente il deposito della tradizione sacra, di origine «non umana» per mezzo della quale la sapienza primordiale si comunica attraverso le epoche a coloro che sono in grado di riceverla. Il capo di tale organizzazione, in quanto rappresenta Manu stesso potrà legittimamente portarne il titolo e gli attributi; inoltre, dato il grado di conoscenza che deve aver raggiunto per esercitare la sua funzione, si identifica realmente col principio di cui è in un certo modo l’espressione umana” (René Guénon, Il Re del Mondo).

4) Le creazioni anteriori al nostro ciclo cosmico sono tradizionalmente raffigurate mediante i “sette re di Edom” cui corrispondono i sette “giorni” della Genesi, ciò rassomiglia in maniera piuttosto evidente alle ere dei sette Manu avvicendatesi dall’inizio del Kalpa sino alla nostra epoca, di cui parla la tradizione indù. Ora, presso la tradizione ebraica la città di Roma è chiamata Edom, e noi sappiamo che nel leggendario periodo monarchico su Roma regnarono sette re, il secondo dei quali fu Numa che diede le leggi alla città, c’è da notare poi come il nome di questo re rappresenti il perfetto anagramma di Manu, e può accostarsi alla parola greca nomos che significa “legge”. Stando a queste premesse la leggenda dei sette re di Roma altro non sarebbe che un particolare riadattamento del mitologema dei sette Manu per quel che concerne la civiltà che da Roma prese vita, parimenti i sette saggi di Grecia rappresenterebbero i sette Rishi del ciclo precedente il nostro.