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sabato 23 aprile 2022

Otto Rahn, un nazista alla ricerca del Sacro Graal

Tratto da "Il Giornale" del 28 luglio 2021:

di Emanuel Pietrobon

Dal novero delle figure che hanno plasmato maggiormente quell’epoca orrorifica e intrisa di misticismo che fu il nazismo, spesso e volentieri, viene escluso ingiustamente l’archeologo del mistero Otto Rahn.

Enigmatico, riservato e con un debole per le grandi leggende dell’Europa, dal mitico Sacro Graal ai segreti cabalistici dei perduti Catari, Rahn è passato alla storia come colui che, più di ogni altro, avrebbe cercato di cavalcare e capitalizzare la ventata di misticità che aveva pervaso la Germania nazista a partire dall’istituzione dell’Ahnenerbe.

Le origini

Otto Wilhelm Rahn nasce a Michelstadt (Germania) il 18 febbbraio 1904. Appassionato di folclore, miti fondativi e leggende medievali sin dalla tenera età, Rahn trascorre infanzia e adolescenza sui libri. Non libri qualsiasi, ma letture complesse, di un certo peso, utili a stuzzicare anche le menti più secche dal punto di vista dell’immaginazione e della fantasia. Libri incentrati sul Sacro Graal e sulle avventure di Parzival, nonché gli interi cicli di re Artù e dei Nibelunghi.

Terminato il ciclo di istruzione secondaria, nei primi anni Venti si iscrive all’univerità di Giessen per studiare storia. Qui avrebbe fatto la conoscenza del professore Baron van Gall, che lo avrebbe introdotto allo studio dei defunti albigesi, altresì noti come catari, e delle leggende esoteriche ruotanti attorno ad essi.

Non poté completare gli studi a causa dell’assenza di mezzi: privo del denaro necessario a coprire le spese universitarie, fu costretto a interrompere la frequenza ai corsi. La permanenza universitaria, ad ogni modo, gli sarebbe stata estremamente utile, perché poté dare una tinta accademica alla propria formazione da autodidatta.

La ricerca del Graal

Nella seconda metà degli anni Venti, chiuso il capitolo universitario, Rahn comincia a viaggiare in lungo e in largo per l’Europa utilizzando quei pochi soldi che ha a disposizione. Si era posto un obiettivo: fare luce sulla fine dei catari, la cui storia lo aveva stregato completamente. Era convinto, invero, che loro fossero stati gli ultimi custodi del Sacro Graal e che nei luoghi delle loro predicazioni andasse ricercata la leggendaria coppa.

Forte della fama acquisita, grazie alla sua conoscenza e al suo avventurismo, a cavallo tra la fine del Ventennio e i primordi degli anni Trenta avrebbe fatto ingresso nei circoli occultistici di Francia e Germania. Una svolta che gli avrebbe consentito di viaggiare più frequentemente e di mettere piede in luoghi prima inaccessibili, come il castello di Montségur – l’ultimo grande campo di battaglia della crociata albigese – e la chiesa di Rennes-le-Château – al centro dell’attenzione delle sette esoteriche sin dalla sua costruzione.

La sua passione lo avrebbe condotto lontano. Nel 1933, all’indomani della pubblicazione di un voluminoso resoconto dei suoi viaggi (Crociata contro il Graal), viene contattato dal numero due del neonato cancellierato nazista: Heinrich Himmler. Di lì a poco, cioè nel 1935, il faccendiere di Hitler avrebbe costituito un’agenzia specializzata in ricerca sull’occulto – la potente Ahnenerbe – e Rahn era stato avvicinato nell’ambito di tale progetto in divenire.

Gli agenti dell’Ahnenerbe avevano un solo compito: credere nell’impossibile. Un compito che, sotto la supervisione di Himmler, li avrebbe portati da un capo all’altro del pianeta alla ricerca di oggetti sacri, resti di civiltà perdute e portali verso altre dimensioni, dagli altipiani del Perù alle terre remote del Tibet. Un compito che Rahn avrebbe accettato con piacere, intravedendo l’opportunità della vita: trovare il Sacro Graal.

Himmler credeva nelle teorie di Rahn, anche perché realmente convinto dell’esistenza di reliquie in grado di conferire poteri preternaturali al possessore – cioè al Führer, che pochi anni più tardi, alla ricerca dell’invincibilità, si sarebbe appropriato della Lancia sacra –, e lo avrebbe spedito in una pluralità di posti da perscrutare a fondo: dai Pirenei all’Islanda – quest’ultima esplorata nell’ambito di una ricerca su Odino e Thor.

La morte

Rahn non avrebbe trovato né portali d’accesso al leggendario regno di Agarthi né il Santo Graal, ma avrebbe condensato in un libro (La corte di Lucifero) il tempo trascorso a visitare i meandri più orfici del Vecchio Continente per conto di Himmler. Il fallimento delle sue missioni, sulle quali l’Ahnenerbe aveva investito grandi risorse e riposto aspettative persino maggiori, avrebbe gettato le basi per la rottura tra Rahn e Himmler.

Nel 1939, dopo essere stato obbligato a servire presso il campo di concentramento di Dachau, Rahn rassegna le dimissioni. Diventa un uomo libero, anche se nuovamente in miseria e intrappolato in uno stato depressivo provocato dalle accuse di omosessualità e ascendenze giudaiche messe in circolazione dagli ex colleghi e dalla stampa.

Viene ritrovato senza vita nella giornata dell’11 aprile di quello stesso anno, morto assiderato tra le montagne che sovrastano Söll, un piccolo comune austriaco. Suicida per alcuni – perché emotivamente fragile e preda dell’alcolismo –, o “suicidato” per altri – assassinato dalla Gestapo su ordine di Himmler –, Rahn avrebbe portato con sé una caterva di misteri: dai tunnel scoperti sotto il castello di Montségur ai rituali perduti dei templari e dei sacerdoti catari, passando per la localizzazione del Santo Graal.

Non si saprà mai se la sua morte fu il frutto di una cospirazione omicida ordita dai vertici dell’Ahnenerbe o se il risultato inevitabile di una grave condizione depressiva non curata, ma ai seguaci di Rahn piace credere in una terza ipotesi: che l’aspirante templare abbia compiuto un’endura, il suicidio rituale con cui i druidi del catarismo, stanchi della dimensione mondana e di quell’involucro imprigionante che è il corpo, si toglievano la vita per ricongiungersi all’Altissimo.

domenica 1 marzo 2015

I Catari, il Vaticano e l'11 settembre all'ennesima potenza

tratto da Il Giornale del 19/02/2015

di Gianfranco de Turris


Ma che vuol dire il titolo Undicimila settembre (Fratini Editore, pagg. 192, euro 16, anche in formato elettronico) che campeggia sulla copertina dell'ultimo romanzo di Pierfrancesco Prosperi? Terminato il libro lo si può ritenere un titolo simbolico: l'attentato dell'11 settembre, il più clamoroso di sempre, portato all'ennesima potenza in una diversa linea temporale rispetto alla nostra.
Il romanzo dimostra molte cose. La prima che è possibile scrivere una storia avvincente, piena di tensione, ben congegnata, originale in meno di 400 o 500 pagine. La seconda è che si può essere innovativi in un genere consunto e abusato come il thriller, ben miscelando «generi» diversi: il poliziesco (l'indagine), l'ucronia (la vicenda non si svolge nella realtà che conosciamo), il fantastico (il sovrannaturale), lo storico (un complotto religioso che parte da molto lontano). La terza che l'ambientazione «vaticana» non deve per forza essere quella famigerata e malamente scopiazzata «alla Dan Brown». Insomma, Prosperi continua a essere uno dei più validi, se non il più valido, scrittore italiano dell'Immaginario (fantascienza, fantastico, orrore ecc.). L'architetto-scrittore è sulla breccia da 55 anni, avendo esordito quindicenne nel '60 sulle pagine della pionieristica rivista romana Oltre il cielo , e ha alle spalle una carriera con una quindicina di romanzi e almeno centocinquanta racconti, il meglio dei quali riunito in Il futuro è passato (Bietti, 2013). Undicimila settembre è la storia del più grande attentato di tutti i tempi che si svolge in una realtà diversa. Sino alle ore 12 e 42 di venerdì 8 aprile 2005 la storia è quella che noi abbiano conosciuto. Da quel momento in poi tragicamente cambia. E il recensore viene messo a dura prova nel dover parlare della trama senza dire di cosa si tratti esattamente, altrimenti la curiosità del lettore sarebbe delusa. Perché una delle caratteristiche di questo romanzo è il progressivo aumento della tensione: a momenti di accelerazione seguono momenti di pause in apparenza descrittive e divaganti, ma utili all'economia della storia.
Tutto comincia con il ritrovamento del cadavere di un uomo nel Tevere. Incaricato delle indagine è il vicecommissario Renato Faranda. Al primo morto se ne aggiungono altri due, l'ultimo dei quali scrive con il proprio sangue la parola PERFAI, che sta per perfait , perfetto, uno dei gradi del catarismo. Contemporaneamente, a monsignor Domenico Aldobrandi, che fa parte dell'Entità, il servizio segreto vaticano, incaricato di indagare sui fenomeni paranormali, arrivano le segnalazioni di una serie di visioni apocalittiche a occhi aperti avute da cinque monaci e monache sparsi in conventi italiani. Le due questioni si intrecciano, sino a che, dopo altre morti atroci, Faranda scopre che è in atto un complotto contro la Chiesa da parte di una setta di Catari dei nostri giorni, occulti e sommersi, i quali quasi fossero manovrati dal Maligno, vogliono dare un colpo mortale all'istituzione che cercò di cancellarli dalla storia sette secoli prima.
L'interpretazione che Prosperi dà delle famose Profezie di Malachia è diversa dal solito: l'ultimo Papa, il famoso Pietro Romano, che si metterà a capo del proprio gregge in un momento di catastrofi e persecuzioni, sarà chi porterà la Chiesa verso una nuova rinascita superando l'Apocalisse.