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mercoledì 22 aprile 2015

Roba da matti

di Marcello Vicchio Non sembri strano che spesso il cercatore di Luce ritorni alla poesia, perché questa è forse il veicolo più potente di trasmissione del Messaggio. Quando gli uomini hanno scelto di indagare il sovra-umano, di narrare imprese tali da annichilire le loro piccole forze, di cantare le glorie celesti o la sapienza, spesso il linguaggio scelto è stato quello della poesia, il più simile alla "lingua degli uccelli". L’impareggiabile libertà creatrice contenuta nella parola ( In principio era il verbo.), fa sì che tutto l’universo materiale e spirituale, e ogni attività o momento dello spirito umano, possano rientrare nel dominio della poesia e in questa riverberino quelle immagini, simboli, allegorie capaci di impossessarsi della mente e del cuore di chi legge, ascolta e si ascolta, e condurlo laddove la potenza dell’espressione desideri. La comprensione piena, poi, della vera opera d’arte è legata strettamente al grado di sintonia interiore, culturale e intellettuale, uguale nella trama ma sempre diversa nei contenuti, che si instaura nel momento in cui il prodotto del genio creativo investe l’animo dello spettatore, con tutte le limitazioni sottintese. Limitazioni, sì, perché tra artista e osservatore deve crearsi un processo di osmosi continua (sono loro due gli unici attori del personalissimo "dramma" che scaturisce dal confronto) e non sempre chi osserva è capace di vedere. Del resto dramma deriva dal greco drama, che significa azione, partecipazione emotiva, e se capita di essere indifferenti o distratti alla voce della Natura e anche a quella delle Muse, le nostre vite saranno condannate a scorrere sui livelli elementari dell’essere, su piani paralleli rispetto alle Forme e senza mai intersecarsi con queste. Continueremo a dormire a occhi aperti, ciechi ai sottilissimi fili che si snodano da altri gradi di realtà e che i saggi, gli iniziati dell’antichità, qualche volta ci hanno indicato. Legati agli alberi maestri delle nostre navi, sordi al richiamo delle sirene, mai riusciremo ad afferrare altro che non sia il subito e l’adesso. "Accade" così che alcuni versi del Purgatorio dantesco, la cantica più squisitamente esoterica dell’opera perché simboleggia l’anima che sta ritrovando faticosamente la Luce dopo il travaglio infernale, improvvisamente lascino trasparire significati reconditi ma invisibili a uno sguardo superficiale, perfetti emblemi di quel "parlar sottile" del quale Dante è inimitabile maestro. Ingannato dal significato letterale di un paio di terzine, perché mai prima d’ora era scoccata in me l’alchemica fusione artista-osservatore alla quale accennavo prima, per difetto non certamente dell’artista, non avevo notato quel quid che costringe la mente a fare un altro piccolo passo nella comprensione dell’opera. e dell’Opera. "Tutto accade", soleva ripetere un grande Maestro, senza che siamo noi a scegliere. E ogni cosa accade quando deve accadere. Vediamo allora che cosa succede nel 3° canto del Purgatorio, tra i versi 33 e 39. Dante e Virgilio sono ai piedi del monte del Purgatorio, stanno cioè iniziando la scalata che porterà il Poeta, gradualmente, a raggiungere il Paradiso Terrestre ( la Gerusalemme Celeste). Dante vede sul terreno, dinnanzi a sé, solo la sua ombra e sussulta, temendo di essere stato abbandonato dal Maestro. Questi lo rimprovera e lo ammonisce a non essere diffidente, perché continuerà a essergli vicino. Il suo corpo è seppellito a Napoli, sulla via per Pozzuoli, per questo non proietta ombre, ma la sua anima è con lui, diafana e incorporea. Non è dato sapere come "accade" che le anime si incarnino nei corpi. Poi Virgilio s-vela: "Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via, che tiene una sustanza in tre persone. State contenti , umana gente al quia; ché, se possuto aveste veder tutto, mestier non era partorir Maria" Il significato letterale è evidente: è pazzo chi crede di poter giungere con la ragione a comprendere la Trinità e la consustanzialità, perciò è meglio che l’umanità si accontenti della prova testimoniata dalla nascita del Figlio. Spiegazione plausibilissima, canonica e quasi scontata. Però.però c’era qualcosa. Mi ricordavo di aver letto da qualche parte una definizione del Matto che mi aveva "instillato" molta curiosità e che, riportata alla terzina dantesca, apriva uno scenario del tutto nuovo. " La Via del Matto è la via del viaggiatore solitario in cammino verso l’iniziazione. Questo viaggiatore può anche studiare sotto la guida di uno o più maestri, ma cercherà in ogni maniera di conservare la propria identità. Dire che il Matto è sulla Via, equivale a dire che percorre la strada dell’esperienza. Quella del Matto è la via dello sviluppo dell’ego. Nel linguaggio esoterico l’ego è l’io; e questo io è una gocciolina delle Mente universale di Dio. E’ quella goccia di divinità che ha cercato l’esperienza attraverso il coinvolgimento nella materia. Questa minuscola particella viene calata nella materia affinché possa percepire se stessa, ossia acquisire esperienza nel regno della creazione divina." (Hedsel-L’iniziato). Il Matto, dunque, spogliato delle apparenze, è colui che percorre la via dell’iniziazione! Ed è colui che ha scelto la Via Umida, fatta di esperienze, di errori e rettificazioni continue. " L’altra , per grazia che da sì profonda fontana stilla, che mai creatura non pinse l’occhio infino a la prima onda" (Par. XX, 118-120) La figura del Matto ricorre in molte tradizioni ( nel Medio Evo era molto diffusa la Festa dei Pazzi, in seguito proibita dalla Chiesa) e si ripresenta, di tanto in tanto, nella letteratura e nell’arte con significati molto spesso occulti, basti ricordare i quadri di Hieronymus Bosch o La nave dei folli di Sebastian Brandt. Sotto il cappello a tre punte ( a simboleggiare corpo, spirito e anima; il fisico, l’eterico, l’astrale; il passato, il presente, il futuro, insomma una trinità), il Matto dei Tarocchi cammina, lo sguardo rivolto in alto ( magari inciampando come Talete, che poi doveva subire i cachinni - come dice un mio amico - della servetta tracia. lo tuo riso sia sanza cachinni), portando un bastone e un fagotto sulla spalla, a rappresentare il fardello delle sue follie visionarie, e un altro bastone in mano, sul quale spesso inciampa. Certo, la rettitudine spesso lo fa inciampare, perché non si possono chiedere compromessi all’anima di un Matto. La lince che gli addenta il polpaccio, simile alla lonza dantesca, animale dalla "gaietta pelle" chiazzata di Bianco e di Nero, non dà tregua al suo spirito inquieto, tormentandolo di continuo, sicché Oswald Wirth può legittimamente affermare : <<.Il saggio non si lascia ingannare dalle parole; invece di oggettivare esteriormente la negazione verbale dell’essere, cerca il Matto in se stesso, prendendo coscienza della ristretta personalità umana, che ha un posto tanto grande nelle nostre misere preoccupazioni.>>. Ben strano, dunque, questo Matto che, a ben vedere, dà l’impressione di essere più savio di molti altri. << Qualsiasi cosa dicano di me i mortali, >> scrive Erasmo da Rotterdam nell’ incipit dell’ Elogio della follia << .ecco qui la prova che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare gli Dei e gli uomini>>. E conclude << Ricordate però il detto greco : "spesso anche un pazzo parla a proposito">>. Se, dunque, il Matto è colui, e non altri, che percorre un proprio viatico iniziatico, egli spera davvero che la nostra ragione sia in grado di indagare la infinita via del mistero della Trinità, che poi è anche il mistero del corpo, dello spirito e dell’anima umana. Il suo cammino forse potrà rivelarsi alla fine infruttuoso, ma non sarà mai inutile perché l’importante è il viaggio in sé, con fardello e bastone in spalla: il Matto mercenario di se stesso. Abituati come siamo a dare alla ragione il freddo attributo della concatenazione di causa ed effetto, retaggio di una certa concezione materialistica della realtà, spesso dimentichiamo di tornare alle origini e indagare sul concetto originario del verbo reri, che ha il doppio significato di ‘credere e pensare’. Il vero Matto spera, crede, pensa e, appunto per questo, non delega ad altri il suo fagotto. E non delega né il fare, né l’essere, né il sentire, come Dante non ha affidato ad altri che a se stesso il travaglio della propria anima alla ricerca della Luce. L’umana gente può accontentarsi del quia.

sabato 22 giugno 2013

Brevi riflessioni sulla follia di Perceval

di Vito Foschi

Nel racconto di Chrétien de Troyes, all’inizio dell’avventura, il giovane Perceval è all’oscuro di tutto, vive in uno stato quasi selvaggio accudito dalla madre e dai servitori. È giovane, sta per entrare nell’età adulta ma è come se non fosse ancora nato, addirittura non viene chiamato con il suo nome… è il puro Folle. Puro perché non contaminato dal mondo, è vissuto nella foresta ed è come se avesse continuato a vivere nel grembo materno, folle perché ignorando totalmente le regole del vivere in società il suo comportamento ai più sembra dettato da follia. Nei primi passi del romanzo abbondano gli appellativi folle, stolto, giovane selvatico. Ma nonostante la Follia o proprio grazie ad essa decide di seguire la Luce, la luce portata nel suo mondo dal bagliore delle armature dei cavalieri che egli non a caso crede angeli.

Qui mi sovviene l’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam che indica nella Follia il motore della storia, per cui nascono e muoiono imperi, città, si formano famiglie, si intraprendono viaggi, attività economiche, ecc. Il saggio, prudente qual è, rimane in casa senza gettarsi in avventure e si accontenta del suo stato e non sogna. Il Folle sogna e qui mi sovviene Lwarence D’Arabia e il suo aforisma sugli uomini che sognano. Recito a memoria. “Esistono due tipi di uomini quelli che sognano quando dormono e quelli che lo fanno ad occhi aperti. Di queste specie di uomini la seconda è la più pericolosa perché lotta per realizzare i suoi sogni”. Non sono le parole esatte, ma il senso è quello. Perceval è della specie che sogna ad occhi aperti. Vede i cavalieri e decide di diventarlo, si arma e parte senza indugiare oltre abbandonando la madre che muore di crepacuore. La vede a terra, ma non si ferma, non indugia, sferza il cavallo e corre via lontano. Un comportamento non propriamente saggio. E quando vede le tre gocce di sangue sulla neve fresca e rimane lì imbalsamato nel dolce ricordo di Biancofiore, che cosa fa se non sognare ad occhi aperti? Addirittura non si accorge dei molti cavalieri che vengono ad interrogarlo su chi era e cosa voleva, che irritati lo caricano e vengono abbattuti puntualmente da Perceval che combatte come in sogno. Una volta “sveglio” raggiunge la corte di Re Artù e chiede del siniscalco Key, con cui aveva una contesa e gli dicono che è stato proprio lui ad abbatterlo e ferirlo ad un braccio. Non si era accorto di niente, il nostro sognatore. Nel saggio di Erasmo esaminata la follia di tutta l’attività umana si giunge alla conclusione che l’unica “follia giusta” è quella in Cristo, quella dei Santi, dei Martiri, ma anche del semplice credente che in Cristo solo può trovare risposta alla follia della vita. Questa è l’idea di Erasmo, che riprende in maniera satirica il concetto di follia come massima saggezza espresso da San Paolo nella lettera ai Corinzi, non a caso citato nell’Elogio, che nonostante la sua sostanziale ortodossia, verrà tacciato di eresia, probabilmente per il suo sarcasmo sui teologi cervellotici, le critiche alla chiesa e al potere costituito, anche se il suo intento era solo di ironizzare sulla società terrena per mettere in evidenza la Verità ultraterrena. E il buon Perceval cosa fa verso la fine del romanzo incompiuto di Chrétien? Dopo aver vissuto cinque anni lontano dalla chiesa, e quindi lontano dallo spirito, vivendo mille avventure senza ritrovare il Graal incoccia in una processione di Venerdì Santo e uno dei presenti lo rimprovera del suo andare armato. Perceval stupito chiede che giorno sia e, ottenuta la risposta sente la necessità di fare penitenza e gli viene indicato un eremita e lui ci se reca prontamente. Qui riceve la sua iniziazione spirituale, ma non ci soffermeremo su questo, ma sul fatto che il Puro Folle ritorna a Dio, la sua follia nel mondo si tramuta in follia in Cristo. Dopo cinque anni di avventure, di follia umana, scopre ciò che è veramente importante la Follia del Cristo che si fece uomo per riscattare i peccati degli uomini e Perceval capito ciò è pronto a riconquistare il Graal ed essere il Folle in Cristo capace dell’estremo sacrificio per mondare il mondo dal peccato e risorgere alla vita eterna.

Naturalmente questa è l’interpretazione cristiana del racconto di Chrétien, ma non è la sola possibile dato che nel cristianesimo persistono reminiscenze di antichi culti e l’evidente presenza nel racconto di elementi celtici posta in luce da molti studiosi.