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venerdì 8 dicembre 2017

Il Risveglio della Forza e la rinascita di una catena iniziatica

di Vito Foschi

Il Risveglio della Forza è il settimo capitolo della saga di Guerra Stellari, che come ben esplicitato già nel titolo, racconta di come torna a rivivere l’ordine dei cavalieri Jedi dopo un periodo di eclissi. La saga, come abbastanza noto, più che essere un’opera di fantascienza è tributaria dello studio  “L’eroe dai mille volti” di Joseph Campbell sul mito dell’eroe, da cui George Lucas ha attinto per la sceneggiatura. Lo stesso studioso ha poi collaborato alla sceneggiatura. Da ciò le molte similitudini, per esempio, con i miti arturiani, dall’ordine dei cavalieri, alle spade, alla tavola rotonda dove si riunisce il consiglio dei Jedi. Se si pensa quanto risulta anacronistica la spada, per quanto laser, in un futuro con delle armi capaci di annichilire un intero pianeta: eppure è l’arma principale dei cavalieri Jedi e delle loro nemesi. Spada che come per i cavalieri medievali passa di padre in figlio. Lo stesso Han Solo, contrabbandiere e giocatore d’azzardo ricorda un po’ i cavalieri erranti in cerca di avventure. Per quanto sia un delinquente, stranamente si trova a combattere sempre dalla parte giusta; ha un fido scudiero, Chewbecca, e un’adeguata cavalcatura, il Millenium Falcon.
Il Risveglio della Forza è interessante sotto un particolare punto di vista. L’ordine dello Jedi è sciolto e Luke Skywalker, l’ultimo maestro, è scomparso: in altri termini una società iniziatica non esiste più interrompendo una catena iniziatica. Potrebbe sembrare l’attuale situazione occidentale, in cui non è ben chiaro cosa sia arrivato intatto tramite una trasmissione regolare nelle moderne società iniziatiche.
Nel film, quello ben vivo è il lato oscuro della Forza con il suo Primo Ordine fatto di maestri ed allievi. Anche qui sembrerebbe una situazione in cui la catena iniziatica, per quanto volta al male, si sia interrotta con la morte dell’Imperatore nel sesto film della saga. Interessante che Kylo Ren, fra i protagonisti principale del film e adepto del lato oscuro, conserva come una reliquia il teschio con il relativo casco di Dart Fener, suo nonno materno e anch’egli seguace del male per quanto alla fine della sua vita si redime. Non solo, Kylo Ren, per quanto non ne abbia bisogno indossa un casco che richiama quello di Dart Fener. Questi particolari tendono a creare un legame con il predecessore e servono in qualche modo a mantenere un legame con il passato e a preservare la catena iniziatica. L’indossare il casco è solo un aspetto superficiale, visivo, ma contribuisce a rendere visibile il legame. Il teschio custodito privatamente da Kylo Ren è un legame più forte, fisico e metafisico con il passato.
In questa situazione di sconforto c’è ancora chi crede nella possibilità di ripristinare l’ordine dello Jedi ritrovando l’ultimo maestro scomparso. Leila Organa, generale della Resistenza, ne è convinta. Leila è sorella di Luke e anche se in forma limitata partecipe del potere della Forza. La sua non è solo una convinzione: sa per certo che il fratello è vivo. Infatti, grazie ai suoi poteri, quando muore Han Solo lo percepisce immediatamente. Parte interessante della storia sono le modalità di rinascita dell’ordine dei cavalieri Jedi. Da una parte c’è sicuramente la ricerca attiva ma infruttuosa del maestro scomparso, dall’altra parte c’è la rinascita “spontanea” dell’ordine.
Su un pianeta desertico una ragazza orfana, Rey, sopravvive recuperando rottami. Di notte spesso sogna un’isola in mezzo all’oceano. Dopo una serie di eventi fortuiti, tipici dei film d’avventura, capita nella taverna di Maz Kanata, curiosa aliena di almeno mille anni. È qui, in un luogo mondano, avviene il risveglio della Forza e di conseguenza dell’Ordine Jedi. “Casualmente” il nome Rey ricorda molto la parola inglese ray, raggio in italiano. La ragazza stabilisce subito un buon rapporto con Han Solo dimostrando insospettabili capacità tecniche di pilota non indifferenti. Nella taverna la ragazza sente un irresistibile richiamo che la spinge nei sotterranei dell’edificio. Qui trova un baule al cui interno trova una spada laser. La tocca e riceve la visione degli eventi che hanno coinvolti i precedenti proprietari dell’arma. La donna è predestinata perché possiede la Forza allo stato latente, ma ha bisogno dell’oggetto fisico della spada per risvegliarsi e risvegliare l’ordine iniziatico scomparso. Questo è l’evento interessante del film, perché ci consegna una possibile modalità di risveglio di una catena iniziatica interrotta. Anche senza una continuità da maestro ad allievo, è possibile che individui particolarmente qualificati possano risvegliare ciò che dorme e riallacciare la catena iniziatica. Oltre alle qualificazioni è necessario un qualche forma di lascito; nel caso del film la spada laser appartenuta a Luke Skywalker e prima ancora al padre Anakin. Il contatto con i precedenti maestri crea una particolare aurea che Rey, particolarmente qualificata riesce a percepire. Dopo l’iniziale rifiuto, la ragazza diventa sempre più consapevole dei suoi poteri, che impara ad usare per sfuggire dalla prigionia in cui l’ha costretta Kyle Ren. L’adepto del male viene addirittura sconfitto in uno scontro mentale dalla giovane inesperta.
Alla fine del film viene scoperta l’ubicazione di Luke che è proprio un’isola deserta in mezzo all’oceano, l’isola del sogno ricorrente di Rey. In questo modo la catena iniziatica è in realtà mai interrotta, perché la giovane donna può ricevere gli insegnamenti direttamente dal maestro. Il vecchio Luke è una sorta di maestro superiore sconosciuto che come nei vari miti compare per donare i suoi insegnamenti.
L’interesse maggiore, credo, sia nella possibilità che un individuo particolarmente qualificato tramite una qualche forma di lascito, un oggetto, un libro, dei rituali, possa riattivare una catena iniziatica interrotta. Rey riesce ad usare i suoi poteri e a sconfiggere Kyle Ren ben prima di incontrare il suo maestro. Potrebbe essere che Luke dal suo rifugio sull’isola abbia praticato una sorta di richiamo verso la donna, ma in ogni caso resta l’evidenza che il richiamo si materializza tramite l’oggetto spada ed è sentito solo da uno specifico individuo.

Non conosco direttamente la situazione degli ordini iniziatici occidentali, però un film profano come il Risveglio della Forza regala la speranza che anche in una situazione disastrosa è possibile riattivare un ordine iniziatico.

venerdì 21 agosto 2015

Le guerre stellari dell’induismo

tratto da "Il Giornale" del 21 giugno 2010

di Davide Brullo

Gli antichissimi poemi del profondo Oriente hanno ispirato legioni di scrittori italiani e anticipato perfino le saghe fantascientifiche. Nei Meridiani una raccolta con novità


Il primo è stato Arthur Schopenhauer. La memorabile chiusura del Mondo come volontà e rappresentazione, teatrale e perfino shakespeariana («per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla»), è condita con gli odori dell’India. È lo stesso Re Arthur a dircelo: oltre ai visionari dei paesi suoi, Angelo Silesio («mistico mirabile di eccezionale profondità») e Meister Eckhart («mistico ancora più grande» e dagli «scritti meravigliosi»), adopera e s’imbeve dei Veda («frutto della più alta dottrina e della più profonda saggezza umana») e delle Upanishad («il dono più prezioso»). Da filosofo tragico Schopenhauer fatica ad attraversare il deserto della Bibbia, adora smarrirsi nei ghirigori metafisici, nei labirintici laboratori della mente indù. Schopenhauer apre l’agenzia viaggi per l’India che sarà presa d’assalto nel Sessantotto: tutto l’Occidente si precipita laggiù a scoprire la via, la verità e la vita. C’è poco da stupirsi, anche Lev Tolstòj riteneva che i Vangeli trovassero compimento grazie a una risciacquatura nel profondo Oriente, riscritti da Confucio e da Krishna.
Signori, risparmiate il biglietto aereo per l’India, non la conquisterete mai. Tanto per mettere le cose in chiaro, «in nessun caso - stando almeno alla più comune e ortodossa delle formulazioni - si può diventare hindu, perché l’appartenenza allo hinduismo dipende innanzitutto da un fattore etnico» (Francesco Sferra). Di conseguenza, evitate di farvi traviare da un guru di passaggio, scansate i ristoranti tipici, scavalcate i paladini della New Age. Invece, risparmiate i vostri santi soldini e spendeteli per lo straordinario Meridiano Mondadori dedicato all’Hinduismo antico (pagg. CCXXXI+1636, euro 55) curato da Francesco Sferra, aiutato da una équipe di superesperti come Carlo Della Casa, Raniero Gnoli, Stefano Piano e molti altri. Evito di raccontarvi la storiella sull’hinduismo: l’introduzione di Sferra ci mette sul chi va là scansando ogni forma di semplificazione, mostrandoci che i rivoli del pensiero indiano sono poliedrici e polimorfici, a volte perfino contraddittori. Ci sono però alcuni punti primordiali specificati nelle Upanishad (la stordente raccolta di testi filosofici, che pur tuttavia, composti dal VII secolo a.C. fino ad oggi, «testimoniano filoni di pensiero anche contrastanti»), ad esempio che «la vita, di per sé, non costituisce un bene ma è anzi radicalmente male» e che l’uomo, dacché «la nascita in forma umana è reputata un’occasione pressoché unica al fine d’incamminarsi lungo il cammino della liberazione dal fenomenico», attraverso la conoscenza, l’esilio dai desideri e dalle illusioni, la retta azione e il retto pensiero, deve sganciarsi dal ciclo delle rinascite. Il punto è sottrarsi alla fatale legge del karma, per cui ogni azione, indimenticabile, ha i suoi effetti in eterno - e viene scontata nelle successive, concatenate nascite, infatti «per chi abbia attinto la cosiddetta “liberazione in vita”, le azioni che verranno a svolgersi nel tempo che resta da vivere prima della morte fisica son dette non produrre più alcun frutto o “seme” karmico: è come uno “scrivere sull’acqua” che non lascia traccia». Rispetto al cristianesimo, che anela alla resurrezione dei corpi, essendo la vita umana unica e irripetibile, l’hinduismo trascende ogni traccia corporea; se il cristianesimo vuole salvare il mondo, la vita e l’uomo, l’hinduismo vuole salvarsi dal mondo, dalla vita e dall’uomo. Per questo nelle mirabolanti testimonianze letterarie dell’hinduismo, fitte di mondi, cosmi, ere intricate e catastrofici versetti, l’uomo non c’è, svanisce nell’alveo della sua meschinità.
In fondo, disarcionati da ogni possibilità religiosa, l’importanza memorabile del Meridiano (che è il primo di due volumi) sta nella sua siderale altezza letteraria: al di là di alcune Upanishad, dei magnifici inni vedici («di una tale antichità possediamo solo la porzione antica dell’Avesta iranico e alcuni testi ittiti») e della indispensabile Bhagavadgita (nella versione di Raniero Gnoli), tutti disponibili in altre traduzioni ed edizioni, sono raccolti finalmente alcuni densi passaggi del Mahabarata, l’oceanico poema epico che narra la guerra definitiva tra Kaurava e Pandava per la conquista del mondo, che ha lo struggente clangore dell’Iliade e la sapienza di Platone, che prevede Blade Runner e Star Wars e assembla in sé ogni possibile parola, verso, concetto (contempla perfino Shakespeare, leggete qui: «Hai tu forse stipulato un patto con il Tempo,/ che alato pone termine a ogni cosa,/ infinito e incommensurabile, torrente/ che trascina via tutto con sé?»). Davvero il Mahabarata è «l’opera più importante dell’India brahmanica» che «si è rivelata capace di comunicare dei valori e una visione del mondo e della vita che si può dire a ragione appartengano all'intera umanità» (così Stefano Piano ne Le letterature dell’India, Utet, coordinato con Giuliano Boccali e Saverio Sani, un valido strumento per approfondire).
I mastodontici testi indù hanno sedotto orde d’intellettuali italici, da Giorgio Manganelli e Pier Paolo Pasolini, fino a Mario Luzi (entusiasta lettore di Sri Aurobindo all’epoca della svolta di Nel magma) e ad Alessandro Ceni (la cui opera più importante, Mattoni per l’altare del fuoco, Jaca Book, nasce sotto l’egida della Upanishad), e c’insegnano una cosa scandalosa: la grande letteratura è sempre «sacra», comunque religiosa. I grandi libri vanno letti come testi salvifici, assoluti, estremi. La prospettiva la derubo ad Harold Bloom, dal suo saggio Rovinare le sacre verità (Garzanti), dove molto ci dice che Franz Kafka, ad esempio, «esercita un’autorità spirituale unica» e che il cosmo edificato da Samuel Beckett «assomiglia alla creazione del Demiurgo nello gnosticismo antico». Pochissimi scrittori assurgono all’altezza di un testo sacro: si chiamano Dante e Shakespeare, John Milton e Leopardi, qualcosa di Tolstòj, qualcosa di Melville e poco altro. Non si tratta d’intuire la tragedia dietro l’angolo o ripetere in versi o in una prosa inimitabile il già noto, ma squarciare vie ignote dello spirito.