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venerdì 25 marzo 2016

Ecco Kullervo, il primo mito di JRR Tolkien

tratto da "Il Giornale" del 06/03/2016

di Daniele Abbiati

Una saga nordica con momenti shakespeariani

Quando Tolkien non era ancora Tolkien né ipotizzava di diventarlo, s'imbattè nell'opera che l'avrebbe trasformato in ciò che è (il presente storico è il tempo che si addice ai creatori di mondi come lui).

Nel 1911, diciannovenne studente alla King Edward's School di Birmingham, legge un barbarico, enigmatico, ancestrale poema epico composto intorno al 1835 dal filologo finlandese Elias Lönnrot sulla base di antichi canti popolari finnici. Si chiama Kalevala. La narrazione lo intriga assai e, insoddisfatto dalla traduzione di W.F. Kirby, appena giunto all'Exeter College di Oxford, sul finire dello stesso anno, munito di una ponderosa Finnish Grammar si mette a studiare il finlandese per gustarla nell'edizione originale. Fallisce: «respinto con gravi perdite», annota. Ma, fallendo, vince. Perché prima di partire soldato per la Francia, nel '16, ha già scritto La storia di Kullervo, il primo passo del futuro professor Tolkien nell'universo tolkieniano. E oggi possiamo gustarlo a nostra volta, quell'esordio, nell'edizione Bompiani (pagg. 248, euro 19, a cura di Verlyn Flieger, trad. Luca Manini, dal 17 marzo in libreria).Per farlo, dobbiamo toglierci dalla testa gli arcadici paesaggi del Signore degli Anelli, i motteggi di Bilbo Baggins, il magico candore della principessa Arwen, e anche gli Orchi della Terra di Mezzo. Qui siamo in una dimensione fuori dal tempo e fuori dal Bene e dal Male, «quando la magia era ancora giovane». Qui non c'è colpa e non c'è redenzione, non c'è merito né premio. Qui l'uomo è ancora bestiale nel godimento e nella sofferenza e al limite, varcando in extremis il confine che lo separa da quella che Platone chiamava la «seconda navigazione», fatta con la Ragione che si mette ai remi, una volta calato il vento della Natura, avverte il peso della vergogna.

«Il passato universale dell'uomo: questo dobbiamo cercare nel Kalevala», disse Tolkien, ormai ex cathedra, a proposito del suo esordio. E ancora: «L'Europa ha perso troppo e troppo spesso nel tentativo di costruire templi greci». Non era la protesta di un anglosassone nei confronti della supremazia mediterranea in tema di miti fondanti, bensì l'esortazione a scavare sotto l'apollineo e sotto il dionisiaco, fino alle radici sub-umane dell'umanità. Per questo aveva scelto di dar voce, pescando nel mare magnum del Kalevala, a un eroe selvatico, tormentato, spiantato, quasi wagneriano. Kullervo, al quale l'autore attingerà a piene mani per creare il Túrin Turambar di I figli di Húrin, vede suo padre Kalervo, sorta di Abele, trucidato dal Caino Untamo. Poi, separato dalla sorella Wanona, subisce le violenze dello zio che per tre volte tenta di eliminarlo annegandolo, bruciandolo e impiccandolo, e si vendica sulla zia-arpia. Suoi unici alleati, il coltello e un magico cane nero parlante. Vaga per lande desolate e per boschi bui, si smarca dal dispotismo del fabbro Asemo fino a che un drammatico incontro con la madre rediviva gli rivela, in un finale shakespeariano, l'unica degna via di fuga dall'amara verità.

L'intera opera di Tolkien è segnata da una missione: ritrovare l'Anello di un'epica da regalare alla sua Patria. E il punto di partenza di tutto Tolkien, la prima pietra miliare sul sentiero che l'ha condotto alla selva oscura trasformata quasi in un luna park dalle rivisitazioni moderne, è in queste pagine figlie di un popolo ignoto, nel lessico animistico di questi «trogloditi», come li chiama lui. L'alba dell'Uomo prima del tramonto dell'Occidente.Daniele Abbiati