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domenica 14 giugno 2020

Un genio nascosto (anche dall'editoria) che anticipò Rimbaud, Tolkien e Lovecraft

tratto da Il Giornale del 20/09/2019

Oggi i suoi versi, tradotti da Ungaretti, in libreria sono introvabili

d Davide Brullo

I am hid. «Io mi sono nascosto». La prima delle Annotations di William Blake «ai discorsi di Sir Joshua Reynolds» si chiude con questa ammissione radicale.

Dove si è nascosto, William Blake, il poeta che ha ispirato Jim Morrison e Jim Jarmush, che influenzò William Butler Yeats e ispirò papiri esegetici a Northorp Frye, a Chesterton, a Harold Bloom?

Blake si è nascosto nel retro del mondo, nell'enigma delle cose, dove l'oscuro fiammeggia e l'origine degli esseri geometricamente indimostrabile si rivela. Blake si è nascosto paradosso demonico nel retro del sistema editoriale italico. Chi lo pubblica più? A parte la casa editrice SE, che ristampa i Libri profetici, Milton, i Canti dell'innocenza e dell'esperienza, secondo la consueta versione di Roberto Sanesi (dei Canti esiste un'edizione Feltrinelli del 2014, per la cura di Roberto Rossi Testa), Blake pare terrorizzare ma si tratta di canonica cecità gli editori nostri. Eppure, è Nelle foreste della notte così il titolo del saggio di Stefano Zecchi che sigilla la fondamentale edizione delle Opere di Blake edita da Guanda nel 1984: ristampatela! che si eleva la cosmologia contraddittoria di Blake, che pare provenire dagli gnostici dell'Antico Testamento e prevede i deliri del Maldodor di Lautréamont, l'ebbrezza di Rimbaud, Il Signore degli Anelli di Tolkien e il Necronomicon di Lovecraft.

In Italia, per altro, William Blake ha avuto un sommo traduttore: Giuseppe Ungaretti. Il rapporto non fu occasionale né sporadico: «Lavoro alle traduzioni di Blake da più di sette lustri. È un poeta difficile. Sempre, anche quando è semplice come l'acqua», scrive il poeta nel «Discorsetto del traduttore» che apre Visioni di William Blake, album di traduzioni edito da Mondadori nel '65. I primi «giochi» dentro l'opera di Blake sono pubblici nel '30 su Il Tevere, poi Ungaretti li accoglie nel complessivo Traduzioni con poesie di Saint-John Perse, Esenin, Góngora, Jean Paulhan pubblicato nel '36 dalle Edizioni di Novissima. Nel '93 Mondadori ripubblica Blake secondo Ungaretti in un volume memorabile, Visioni, introdotto da Aldo Tagliaferri. Se ne sono perse le tracce. Un peccato, perché Ungaretti, Lancillotto della poesia pura che aveva sintonia con i poeti che rompono le norme del linguaggio, sfasciando la grammatica in graniglia di bagliori, sapeva che «il vero poeta anela a chiarezza: è smanioso di svelare ogni segreto: il proprio, il segreto della sua presenza terrena cercando di conoscere il segreto dell'andare della storia e dei motivi che reggono l'universo, cercando d'impossessarsi, folle, del segreto dei segreti. Egli ha coscienza che la parola è difficile, ma, e se ne dispera, la rende fatalmente più oscura, più intrappolata nei significati che, cerando di nudarla e di coprirla di luce, le moltiplica».

In Joshua Reynolds, ritrattista e fondatore della Royal Academy of Arts, Blake vedeva l'icona del mentitore, dell'esteta impostore, che di un volto non afferra il mistero, ma soltanto la somma pattuita per dipingerlo. «Simulazioni dell'Ipocrita», giudicava i discorsi cattedratici di Reynolds. Così, deliberò di vivere nascosto, Blake, come gli eremiti ustionati dall'angelo, come gli uomini incapsulati nel futuro. «Mi considero sufficientemente Pago di vivere come faccio ora, e temo solo di portare Sfortuna ai miei amici», scrisse il poeta a John Linnell, il 25 aprile del 1827. Morì tre mesi dopo. Si pensava come a un Povero Giobbe, stava illustrando la Divina Commedia. Nessuno fu più vigile di lui. Siamo noi, ipocriti lettori, a non sopportarne lo sguardo.

domenica 2 luglio 2017

Tolkien e l'Italia

Nel maggio del 1955 JRR TOLKIEN, l'Autore de Lo Hobbit e del Signore degli Anelli, assieme alla figlia Priscilla, con in mano le bozze dell'ultimo Libro de Il Signore degli Anelli compì un importante viaggio in Italia, che rimase impresso a fondo nelle sue opere narrative. Dalle acque di Venezia alla spiritualità di San Francesco in Assisi, questo Diario inedito illumina le radici culturali e spirituali di un grande successo letterario e cinematografico.

venerdì 25 marzo 2016

Ecco Kullervo, il primo mito di JRR Tolkien

tratto da "Il Giornale" del 06/03/2016

di Daniele Abbiati

Una saga nordica con momenti shakespeariani

Quando Tolkien non era ancora Tolkien né ipotizzava di diventarlo, s'imbattè nell'opera che l'avrebbe trasformato in ciò che è (il presente storico è il tempo che si addice ai creatori di mondi come lui).

Nel 1911, diciannovenne studente alla King Edward's School di Birmingham, legge un barbarico, enigmatico, ancestrale poema epico composto intorno al 1835 dal filologo finlandese Elias Lönnrot sulla base di antichi canti popolari finnici. Si chiama Kalevala. La narrazione lo intriga assai e, insoddisfatto dalla traduzione di W.F. Kirby, appena giunto all'Exeter College di Oxford, sul finire dello stesso anno, munito di una ponderosa Finnish Grammar si mette a studiare il finlandese per gustarla nell'edizione originale. Fallisce: «respinto con gravi perdite», annota. Ma, fallendo, vince. Perché prima di partire soldato per la Francia, nel '16, ha già scritto La storia di Kullervo, il primo passo del futuro professor Tolkien nell'universo tolkieniano. E oggi possiamo gustarlo a nostra volta, quell'esordio, nell'edizione Bompiani (pagg. 248, euro 19, a cura di Verlyn Flieger, trad. Luca Manini, dal 17 marzo in libreria).Per farlo, dobbiamo toglierci dalla testa gli arcadici paesaggi del Signore degli Anelli, i motteggi di Bilbo Baggins, il magico candore della principessa Arwen, e anche gli Orchi della Terra di Mezzo. Qui siamo in una dimensione fuori dal tempo e fuori dal Bene e dal Male, «quando la magia era ancora giovane». Qui non c'è colpa e non c'è redenzione, non c'è merito né premio. Qui l'uomo è ancora bestiale nel godimento e nella sofferenza e al limite, varcando in extremis il confine che lo separa da quella che Platone chiamava la «seconda navigazione», fatta con la Ragione che si mette ai remi, una volta calato il vento della Natura, avverte il peso della vergogna.

«Il passato universale dell'uomo: questo dobbiamo cercare nel Kalevala», disse Tolkien, ormai ex cathedra, a proposito del suo esordio. E ancora: «L'Europa ha perso troppo e troppo spesso nel tentativo di costruire templi greci». Non era la protesta di un anglosassone nei confronti della supremazia mediterranea in tema di miti fondanti, bensì l'esortazione a scavare sotto l'apollineo e sotto il dionisiaco, fino alle radici sub-umane dell'umanità. Per questo aveva scelto di dar voce, pescando nel mare magnum del Kalevala, a un eroe selvatico, tormentato, spiantato, quasi wagneriano. Kullervo, al quale l'autore attingerà a piene mani per creare il Túrin Turambar di I figli di Húrin, vede suo padre Kalervo, sorta di Abele, trucidato dal Caino Untamo. Poi, separato dalla sorella Wanona, subisce le violenze dello zio che per tre volte tenta di eliminarlo annegandolo, bruciandolo e impiccandolo, e si vendica sulla zia-arpia. Suoi unici alleati, il coltello e un magico cane nero parlante. Vaga per lande desolate e per boschi bui, si smarca dal dispotismo del fabbro Asemo fino a che un drammatico incontro con la madre rediviva gli rivela, in un finale shakespeariano, l'unica degna via di fuga dall'amara verità.

L'intera opera di Tolkien è segnata da una missione: ritrovare l'Anello di un'epica da regalare alla sua Patria. E il punto di partenza di tutto Tolkien, la prima pietra miliare sul sentiero che l'ha condotto alla selva oscura trasformata quasi in un luna park dalle rivisitazioni moderne, è in queste pagine figlie di un popolo ignoto, nel lessico animistico di questi «trogloditi», come li chiama lui. L'alba dell'Uomo prima del tramonto dell'Occidente.Daniele Abbiati




domenica 11 novembre 2012

Delle veloci considerazioni sul Signore degli Anelli

di Vito Foschi

I vari personaggi della Compagnia fanno parte di varie specie: elfi, uomini, hobbit, nani. Gli Hobbit, chiamati mezzi uomini sembrano rappresentare la parte infantile dell'uomo e vivono in un stato di tranquillità preoccupandosi delle piccole cose come il cibo. Come arma hanno un pugnale che rappresenta quasi un temperino da ragazzini.
Il nano rappresenta la parte più materiale dell'uomo. Vive sotto terra, è basso, brutto, ma robusto e usa l'ascia come arma che è un'arma molto primitiva una delle prime ad essere creata dall'uomo.
Gli elfi rappresentano la parte spirituale dell'uomo. Sono immortali, sono belli, usano l'arco che è un'arma che rimanda al cielo: la freccia vola. Infatti nell'oroscopo il segno del sagittario ha questa aspirazione spirituale rappresentato dall'arco anche se ha l'ambivalenza di avere le gambe ben piantate a terra.
L'uomo dovrebbe avere in sé tutti questi aspetti, unire la forza del nano, la spiritualità degli elfi e lo sguardo semplice degli hobbit.