mercoledì 16 maggio 2012

La scienza nascosta

È appena uscito il libro del dottor Roberto Volterri…



Oltre all’onnipresente e genialissimo Nikola Tesla, in questo libro  troverete qualche altro “spirito irriverente” – irriverente verso la   Conoscenza consolidata, universalmente accettata, accademica. Certamente è considerato  “irriverente” pensare che la Grande Piramide di Giza, anziché rappresentare – almeno per l’archeologia di stretta    osservanza – un gigantesco monumento che dovrebbe  ricordare le gesta di Cheope, di Chefren o di chissà chi, fosse in realtà una  mastodontica ”Pila a combustibile” Eppure un misconosciuto agronomo del nostro imprevedibile Bel Paese così ipotizza…E non è da considerarsi “scienziato pazzo” – nella più benevola accezione del termine! – chi ipotizza che con le “sottilissime     energie” la nostra mente sarebbe in grado di produrre, i misteriosi “crop circles”?  Ma l’universo delle “energie sottili” è vastissimo, quasi infinito. Così, nel libro incontrerete anche il dottor Reichenbach e il suo “OD” e il dottor Blondot per esaminare da vicino i suoi (molto) evanescenti “Raggi N”. Ma alcune scoperte scientifiche vanno nascoste e ostacolate. Su questa linea si inserisce la vicenda delle geniali e stranissime   teorie di quell’altro “scienziato pazzo” – il governo USA così lo  definì per… toglierselo poco elegantemente di torno – Wilhelm Reich con le sue “Camere Orgoniche” e i suoi strani “Cloud busters” in grado di agire sul tempo atmosferico!Nel libro si parlerà di laboratori dove altri “scienziati pazzi” studiano  la possibilità di vedere senza l’uso degli occhi, di generare   energie di incommensurabile potenza partendo…dal “nulla” e qualche altro divertente ed istruttivo girovagare tra i misteri della medicina antica, dell’esoterismo “diabolico”, dell’astrologia un po’ più “scientifica” e di  qualche criptico messaggio celato in un indecrittabile “quadrato magico”.

lunedì 14 maggio 2012

IL SEPRIO, I LONGOBARDI, IL MEDIOEVO


tratto da L'indipenza del 10 gennaio 2012

 
di REDAZIONE

Questo libro ripercorre la storia dell’antico Comitatus – prima ancora Iudiciaria – del Seprio nel Medioevo, quando quest’area, oggi appartenente alla Provincia di Varese, rivestiva un ruolo politico, strategico, militare ed economico-commerciale di primaria importanza.
I saggi qui raccolti forniscono un quadro completo sulle vicende del Seprio e del suo centro eponimo, Castrum Sibrium, oggi parco archeologico ma un tempo fortezza-cardine del sistema difensivo subalpino, distrutta nel 1287 da Ottone Visconti e mai più riedificata. Protagonista è anche la cittadina di Morazzone, che nell’aprile 2010 ha ospitato il convegno di cui questo volume rappresenta gli Atti: oltre a uno studio delle sue vicende storiche, è infatti presentato per la prima volta il resoconto dettagliato sugli scavi svolti nella chiesetta della Maddalena.
Completa il testo una disamina del Sistema museale archeologico della Provincia di Varese, fondamentale in vista dell’ormai prossima entrata di Castelseprio e Torba – come parte integrante del progetto Italia Langobardorum, L’Italia dei Longobardi – nella World Heritage List dell’Unesco.
Elena Percivaldi, l’autrice, è nata a Milano e vive a Monza. Laureata in Lettere Moderne – Storia, medievale, sposata, due bimbi, sono medievista, scrittrice e giornalista, critico d’arte e musicale.
All’attività di saggista, storico e critico affianca la curatela di mostre, la conduzione di programmi radio, la partecipazione in trasmissioni tv e radio a tema e a conferenze, convegni e seminari di studio in tutta Italia.

TITOLO: . Longobardi nella Lombardia settentrionale. Autore Libro: PERCIVALDI E. (a c.), Collana GLI ARCHI, illustrato, pagine 128, editore IL CERCHIO

domenica 13 maggio 2012

LE NOTTI DI SAMHAIN

Un Viaggio nelle Tradizioni Popolari alla ricerca di antichi Culti Pagani

di Andrea Romanazzi

Ancora una volta, come ogni anno, ci stiamo apprestando ad esser bombardati da pubblicità, magazine, network che parlano di Halloween, il "carnevale" novembrino vera e propria festa del consumistico mondo occidentale. Per molti la ricorrenza è estranea alla nostra cultura italiana, un chiaro esempio dell’effetto della globalizzazione e dell’assorbimento di usi e costumi del mondo anglosassone. In realtà, celate da maschere e vetrine scintillanti ecco trasparire antichi ricordi di tradizioni mai del tutto scomparse e ancora insite nel folklore popolare che contraddistingue la nostra nazione.
Sarà così seguendo gli indizi nascosti nelle pieghe del tempo che arriveremo ad un culto molto antico, il culto della Dea Madre, regina di questa mistica notte ove ancora oggi il velo della reminescenza è così leggero da permetterci di guardar attraverso.
Secondo il Dizionario McBeain di Lingua Gaelica Samhain (pronunciato "sow-in"), forse la più importante tra le festività celtiche, deriverebbe da "samhuinn" e significherebbe "summer’s End", la fine dell’estate e l’inizio della stagione invernale. In realtà i festeggiamenti non duravano una sola giornata ma iniziavano una settimana prima e si concludevano una settimana dopo, così è molto più probabile che il giorno più importante dei festeggiamenti non fosse il primo del mese di Novembre, bensì l’11, data coincidente con quella che oggi viene definita estate di San Martino. Successivamente, nei paesi di origine anglosassone, Samhain fu trasformata in All Hallow’Eve, ove "Eve" sta per "vigilia" o ancora Halloween.
Questa data coincideva con l’inizio dell’anno celtico, il momento in cui la natura inizia il suo riposo e il primitivo, spaurito dalla morte della propria "mater", già preparava la sua rinascita. Da qui il collegamento di Samhain come festa dei morti, ma in realtà essa non è una festività legata ai defunti, esattamente il contrario, è legata alla vita, alla grande dea che muore per poter rinascere.
Ai primordi infatti la divinità è immaginata come la sovrana dei boschi e della natura selvaggia, essa da sostentamento agli uomini ma ne può causare anche la morte, successivamente il passaggio dal nomadismo all’agricoltura impone al selvaggio un più attento esame delle stagioni e dei cicli naturali, egli si accorge che la terra non è sempre fertile, la dea, resasi immanente nei campi, nelle piante di grano e di orzo muore per poter rinascere nuovamente e così assicurare, con i suoi eterni cicli, la novella vita. Il concetto di morte e resurrezione ha così da sempre permeato le credenze e i miti degli uomini, nel mondo greco ad esempio essa è ben descritta dalla storia di Demetra e Persefone, la leggenda narra che un giorno la bella Presefone, figlia di Demetra, mentre raccoglieva dei fiori con delle amiche, si allontanò nel bosco e così Ade, la divinità dell’oltretomba, da tempo perdutamente innamorato della fanciulla, decise di rapirla con il beneplacito di Zeus. La Dea Madre accortasi della scomparsa della figlia iniziò a cercarla ma, vedendo vani i suoi tentativi, decise che fin quando non le sarebbe stata restituita la terra non avrebbe prodotto più i suoi frutti. Zeus ordinò così ad Ade di lasciar libera la fanciulla ma il dio, con un sotterfugio, costrinse la stessa a ritornare ogni sei mesi nel suo regno. Demetra allora infuriata decise che nel periodo in cui Persefone fosse stata nel regno dei morti, sul mondo sarebbe calato l’inverno e la terra non avrebbe prodotto i suoi magnifici frutti, una metaforica morte in attesa del risveglio. E’ in questa ottica che la festa di Halloween assume un nuovo significato, esso diventa il giorno in cui il velo che separa il mondo dei vivi da quello del soprannaturale si fa molto sottile, tanto da poter facilmente trapassarlo, nasce così l’idea che le anime dei morti proprio in questo giorno riescon più facilmente a raggiungere e far visita ai loro cari ancora in vita. Da questa credenza nasce l’usanza di lasciare frutti o latte sugli usci delle porte, in modo che gli spiriti, durante le loro visite potessero ristorarsi o ancora accendere torce e fiaccole per segnalare il cammino e agevolare loro il ritorno.
Con l’avvento del Cristianesimo, la Chiesa cercò di appropriarsi della festività troppo radicata nella cultura popolare per esser cancellata e così il 1° Novembre diventava la festa di Ognissanti, le figure fatate e gli spiriti della tradizione celtica, a loro volta immagine di un oltremodo di morte e rigenerazione, furono demonizzati, le stesse donne il cui ruolo nei rituali di fertilità era fondamentale furono trasformate in streghe e i falò di "gioia" tradotti in roghi. Anche le lanterne e le luci giuda subirono una ugual sorte, quelle che all’inizio avevano proprio il compito di indicare ai propri defunti la "via di casa" divennero "lanterne scaccia streghe" con un uso completamente differente.


LA ZUCCA COME SIMBOLO DELLA DEA MADRE

La tradizione vuole che solo verso il 1700 iniziò a sorgere l’usanza di intagliare strani e spaventosi volti nelle rape e di inserire nel loro interno delle candele illuminate proprio per far allontanare gli spiriti maligni, nel 1845 però, una spaventosa carestia in Irlanda obbligò moltissime persone a immigrare in America portando con loro anche queste tradizioni. La difficoltà di reperire rape nel nuovo continente fece si che il tubero fosse sostituito dalle molto più diffuse zucche gialle che ancor oggi sono uno dei simboli più ricorrenti di Samhain. Se così ci racconta la storia non possiamo far a meno di soffermarci sulla scelta del frutto-simbolo della festa, trovando molte altre antiche tradizioni che riportano alla zucca. Essa è infatti da sempre legata a rituali di morte e rigenerazione che contraddistinguono il culto della dea, infatti il fiore, chiamato giglio, era legato di solito ai morti, il suo colore giallo pallido ricordava appunto il colore delle ossa dei defunti, mentre il frutto, appunto la zucca, era associato alla procreazione e alla fertilità.
Se così immaginiamo che la lanterna di Halloween abbia origini moderne basta sfogliare il Corpus Hippocraticum del 400-300 a.C. per leggere che


"…se la donna ha la stanguria tagliare la testa e il fondo di una zucca, metterci sotto del carbone, gettare sul fuoco della mierra triturata, la donna si sieda sulla zucca e faccia entrare quanto più possibile i suoi organi genitali, affinché le parti genitali ricevano più vapore possibile…"


Ai nostri occhi la descrizione sempre perfettamente coincidere con la lanterna cacciastreghe simbolo della festività. La zucca è così lo strumento per assicurare la procreazione, essa è il priapos primordiale, l’elemento ingravidatore che nasce dalla stessa terra e assicura, nel periodo più oscuro e buio la vita. Del resto la zucca era anche associata al dio Priapo, divinità di origine greca poi successivamente "adottata" dai romani. Il dio, spesso rappresentato con un volto umano e le orecchie di una capra, tiene in mano un bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla testa foglie d’alloro. Sua caratteristica più evidente è l’enorme o addirittura il doppio fallo, simbolo proprio della sua natura feconda, aspetto per il quale era anche rappresentato da un pilastrino verticale con sopra scolpita la sua testa e il suo fallo eretto, simbolo appunto della fecondazione.
Ebbene il dio era anche strettamente collegato alla zucca come possiamo leggere dai Carme Priapei


"…io sono invocato come custode ligneio delle zucche…"


E ancora il ricordo della zucca come frutto legato ai rituali di fertilità lo ritroviamo in molti autori latini che la associano al parto e alla gravidanza


" …intortus cucumis praegnansque cucurbita serpit… "


o ancora in Propezio che scrive


" ...caerules cucumis tumidoque cucurbita ventre... "


Così la zucca è simbolo fallico ma al tempo stesso essa stessa "madre", portando nel suo ventre fruttifero i semi, come la donna e la dea essa assicura la vita per la sua specie e il sostentamento per gli uomini.


La Processione dei Morti dal mondo celtico alle tradizioni Italiane

Altra interessante tradizione è legata al famoso Trick or Treak, la mascherata di bambini che attraversano le vie della città cercando dolciumi e regalini. In realtà per scoprire cosa si cela dietro questa usanza dovremo attraversare i sentieri del folklore italiano alla ricerca delle "processioni dei morti" fino ad imbatterci nel mitico Artù, espressione dell’Ankou bretone, ma anche e soprattutto della "morte birichina" delle tradizioni popolari italiane.

L’Ankou e il culto dei morti in Bretagna

Dal XI secolo moltissimi sono i racconti popolari e i testi letterari in Europa che parlano dell’apparizione dell’"esercito furioso", nome con il quale è conosciuto, nell’area centro europea, una strana processione di misteriose creature fantastiche, poi evolutesi nel loro aspetto, in streghe e stregoni pronti al viaggio verso il sabba.
Questa schiera di esseri, composta indifferentemente da uomini e donne, spesso a cavallo di animali in qualche modo legati ai culti totemici pagani, come capre, cavalli o strani rapaci, era di solito guidata da un essere mitico, una antica divinità pagana autoctona come ad esempio Wotan o Odino dell’area nordica o da strane creature, spesso dalle fattezze femminili, che trasportavano, non di rado, un carro rituale.
Una interessante area da esaminare, proprio perché ancora oggi è visibile nel folklore locale lo strano rapporto tra viventi e defunti, è la Bretagna, luogo ove alla religione ufficiale si mescolano vorticosamente antiche tradizioni pagane mai cancellate.
Un esempio ancora ben visibile nelle leggende e nei racconti popolari, è ad esempio quello dell’Ankou. Si tratta di una figura locale raffigurata come la "morte", sotto forma di scheletro con la falce che però non è semplice espressione della stessa, in realtà si tratta solo di un suo messaggero, una strana figura che giunge ad avvisare le persone, e spesso a consigliare di portare subito a termine faccende personali in sospeso prima del loro trapasso.
Questo però non è l’unico esempio, altra interessante informazione sul mondo bretone dei trapassati può esser desunta, poi, dal racconto di Procopio di Cesarea nella sua Guerra Gotica. Parlando della Brittia ci racconta che "…giunto a questo punto della storia mi sembra inevitabile raccontare un fatto che ha piuttosto attinenza con la superstizione…". Ecco così che lo storico narra delle strane abitudini di alcuni abitanti di borghi di pescatori situati dall’altra parte del mare, in quell’area che oggi è appunto nota come la Bretagna. Alcuni di questi individui avevano un compito strano, quello di traghettare le anime dei morti nella "…A tarda ora della notte, infatti, essi sentono battere alla porta e odono una voce soffocata che li chiama all’opera. Senza esitazione saltano giù dal letto e si recano sulla riva del mare…sulla riva trovano barche speciali, vuote. Ma quando vi salgono sopra le barche affondano fin quasi al pelo dell’acqua come se fossero cariche…dopo aver lasciato i passeggeri ripartono con le navi leggere…".
Se questo racconto sembra incredibile basta giungere ancora oggi in Bretagna per ritrovare, arenate nelle sacche di sabbia dovute alla marea, vecchie barche oramai in disuso. Nessuno però si azzarda a spostarle o portarle via, ancora oggi queste sono le barche che traghettano i morti.
E’ questa l’espressione della comunicazione locale con un aldilà mai visto come luogo tenebroso come dimostrerebbero i numerosi cimiteri mai isolati dai luoghi abitati.
Del resto è già dai tempi di Claudiano, V secolo, che l’area bretone era nota come il luogo dei morti, era qui, infatti, che si identificava il luogo ove Ulisse aveva incontrato i morti e ove "i contadini vedono vagare le ombre pallide dei morti", una affermazione che ritroveremo in seguito proprio legata al territorio italiano. Ma questo non basta, oramai è ben dimostrato come alcuni viaggi compiuti da cavalieri delle saghe bretoni, come Parsifal o Lancillotto, in terre desolate o verso castelli misteriosi altro non sono che viaggi nel mondo dei defunti come poi testimonierebbero toponimi come Limors o il Schastel le mort.
Lo stesso Artù, in varie raffigurazioni, altro non sarebbe che il traghettatore delle processioni dei morti, come nel mosaico pavimentale di Otranto, ove il sovrano è raffigurato con uno scettro in mano in groppa ad un caprone, seguito da una schiera di uomini.

La Processione dei morti nella tradizione italiana

Anche il folklore italico però, come si potrebbe pensare, non è estraneo al mondo dei trapassati, come mi sono occupato in un altro mio lavoro proprio sul culto dei morti.
La tradizione della Processione dei defunti e la visione degli stessi da parte della gente contadina non è però patrimonio esclusivamente bretone, anche se ancora oggi in quelle terre tale tradizione resiste fortemente, ma in tutta Europa sono fortemente diffusi racconti popolari di gente che periodicamente assisteva a tali apparizioni.
In realtà questo "spettacolo" non era riservato a tutti, ma solo a persone dai particolari poteri o nati in ben precisi giorni.
Così, ad esempio, in Friuli, il Ginzburg parla dei Beneandanti, uomini dai particolari "poteri", nati con la "camicia", un parte della placenta che, proprio per questa loro "stranezza" saranno poi gli attori, in particolari periodi dell’anno, di una lotta contro le forze maligne per assicurare fertilità ai campi.
Sono loro che possono aver rapporto con i defunti dato che "chi vede i morti, cioè va con loro, è un Benandante".
Moltissimi poi sono i racconti popolari di incredibili incontri nelle campagne con schiere di defunti. Sempre in Friuli interessante è l’avventura capitata ad un povero monaco nel 1091. Mentre questi camminava lungo un sentiero di campagna viene attratto da strani lamenti e così scorge una processione tra la quale riconosce alcuni uomini suoi conoscenti morti da poco tempo. Se però potremmo pensare che simili visioni sono relegate ad un lontano passato ecco presenti numerose testimonianze di donne lucane che durante il secolo scorso si imbatterono in quella che è la "messa dei morti". Così lungo le buie vie che conducono le contadine del sud nei campi da lavoro, capita spesso di vedere una chiesa aperta e illuminata e all’interno anime dannate che allontanano subito le viandante o le comunicano un messaggio per il mondo dei vivi.
"…una volta un forese [abitante del paese di Forenza, in Lucania N.d.A] commise con il suo padrone di andar ad attingere acqua ad una fontana lontano dal paese…il forese si mise in cammino ma giunto nei pressi della fontana di Tromacchio vide quattro persone che portavano a spalla una bara…decise di andare alla fontana di spando ma anche qui il cammino era sbarrato dai quattro…allora gli venne incontro un sacerdote morto da qualche tempo che lo prese per mano e gli disse "queste scommesse non le devi fare"…"
La strana fila tanto ricorda quelle raffigurazioni rinascimentali, chiamate "Danze Macabre", che iniziano ad apparire attorno al 1400, interpretate successivamente con il motivo della morte "livellatrice". Sicuramente queste attingerebbero da ben più antichi ricordi, come testimonierebbe la primitiva guida delle fila.
Sempre nella regione lucana, fortemente legata al mondo contadino, pullulano storie di donne che, mentre raccoglievano l’acqua, nel riflesso del catino, scorgevano strane processioni tra le quali individuavano alcuni loro defunti, tradizione presente anche nel Sud Italia. Anche in questo caso le "visioni" sono accomunate da un particolare: avvengono solo in particolari momenti della vita dell’individuo o in particolari periodi dell’anno, spesso coincidenti con festività agrarie, come ad esempio la Festa di Onnissanti o la notte di San Giovanni.

Dolcetto o Scherzetto? I Prolegomeni del cibo del mondo Ctonio
Allo stesso modo si innesta la tradizione del cibo dei defunti, trasformato poi nelle leccornie e dolciumi per i giovani bambini.
Da sempre l’uomo ha avuto timore del ritorno del defunto, l’untore che può portare morte tra i vivi. Secondo così il principio della magia simpatica, ponendo del cibo nelle tombe si sarebbe placata la fame del trapassato impedendogli così di ritornare sul mondo terreno. Che il cibo reale fosse davvero utilizzato nei sepolcri è dimostrato da diversi testi come il "De Masticazione Mortuorum in Tumulis" di Michel Raufft o la "Dissertatio Historico-Philosophica de Masticatione Mortorum" di Philip Rohr. Qui si descriveva come il morto, le cui scorte alimentari erano insufficienti, iniziava a nutrirsi masticando il sudario e le sue stesse carni. Anche il cannibalismo diventa un modo per assicurare la seconda morte al defunto, infatti lo stomaco diventa suo definitivo sepolcro e sarebbe da questa interpretazione che deriverebbero diverse espressioni popolari Italiane come "bere i morti" o "mangiare i morti"(E. De Martino, 1959) e l’usanza del banchetto funebre. Ecco così che nel giorno dei morti, quasi riproponendo il tema della necrofagia, in molti paesi della Penisola vengono preparati strani dolcetti a forma di ossa chiamati appunto "ossa dei morti"(A. Romanazzi, 2003) che vengono poi regalati ai fanciulli.
Cibo rituale sono le fave e i ceci, da sempre presenti nei convivi funebri e nelle "merende" che si tenevano tra i parenti del defunto immediatamente dopo il funerale. La motivazione potrebbe essere che la fava è stata da sempre considerata come il mezzo per comunicare con l’Aldilà, esse erano presenti nelle cerimonie funebri nell’antico Egitto ed in Grecia mentre a Roma erano il simbolo della resurrezione dalla morte.
Cicerone ci informa dell’uso ateniese di spargere granaglie sulle tombe, e legumi cotti in enormi pentole venivano offerti ad Hermes Ctonio. Ancora fino al secolo scorso in vari paesi grandi bigonci erano posti agli angoli delle strade in modo che le anime vaganti, ma anche i poveri, potessero rifocillarsi.
Il seme, poi, nasconde anche un’altra motivazione, esso è alimento molto gradito ai defunti perché, secondo l’immaginario popolare, deriverebbe proprio da quello stesso mondo conio al quale il trapassato apparterrebbe. Non solo però, il seme è simbolo del continuo ciclo di morte e rinascita, esso infatti viene mietuto proprio per poter ricrescere e non dobbiamo dimenticare che etimologicamente la dea Cerere sembrerebbe provenire proprio da "Madre del grano" identificata spesso con l’ultimo covone della raccolta e destinato a rituali di fertilità, infatti era riservato alle vacche gravide proprio per assicurare loro fertilità o alle stesse donne che si dovevano garantire un parto felice.
Il seme diventa così anche simbolo della rinascita, una novella speranza per il defunto, dunque.
Non dobbiamo poi dimenticarci della tradizione del melograno come altro alimento importante, esso è un frutto di speranza, ricco di semi e da sempre albero di fertilità.
Così, ad esempio, è sulla tomba di Osiride che germoglia un melograno dopo che esso viene ricomposto da Iside, o ancora raffigurazioni del frutto le troviamo sulle pareti tombali di varie tombe etrusche o romane.

Ecco così che le numerose tradizioni legate alle schiere dei morti propongono una nuova ed interessante interpretazione delle schiere di ragazzini, mascherati da esseri demoniaci o semplicemente da strane creature animalesche, che girano per le città al grido di "trick or treak". Guidati da un mitico "traghettatore", conosciuto ad esempio nel mondo celtico come "cenmad y meirew", ma la cui figura come abbiamo visto non è estranea al patrimonio folklorico italiano, questi bambini, vestiti a maschera come i vetusti sciamani altro non sarebbero che i defunti che tornano tra i vivi e chiedendo loro in offerta cibo rituale destinato in cambio di tranquillità: solo una volta sazio il defunto potrà ritrovare la pace dell’aldilà.

giovedì 10 maggio 2012

IL GRANDE LIBRO DEI MISTERI




Dalla mitica Atlantide al calendario Maya: i più sconvolgenti e dibattuti enigmi della storia umana in attesa di una soddisfacente soluzione.


I megaliti di Stonehenge, la Piramide di Giza, le linee di Nazca: che cosa volevano dirci gli antichi?

Rennes le Chateau e la Cappella Rosslyn: i Templari e il Santo Graal.

Da Tunguska agli odierni avvistamenti Ufo: misteriosi segnali dal cielo.

Fantasmi, telepatia, medianità ed esperienze di pre morte: la scienza si interroga sul paranormale.

Un viaggio lungo un sentiero nel quale si muovono non soltanto le teorie di confine ma anche le ipotesi scientifiche, in un serrato confronto dal quale si auspica possano un giorno nascere risposte certe. Un libro affascinante che permette al lettore di immergersi in una realtà parallela ma non per questo del tutto irreale, alla scoperta di luoghi, fatti, personaggi e storie spesso difficilmente reperibili nella letteratura del mistero.

IL GRANDE LIBRO DEI MISTERI
Roberto La Paglia
Prefazione di Paola Giovetti
Edizioni Xenia

martedì 8 maggio 2012

Il Cavaliere Vermiglio

di Vito Foschi

La scelta del colore vermiglio per le armi di Perceval sembra non causale, data la ricchezza simbolica del colore rosso “Ogni elemento ha un suo colore: la terra è azzurra, l’acqua è verde, l’aria gialla, il fuoco rosso; poi vi sono altri colori casuali e commisti, appena riconoscibili. Ma tu bada con cura al colore elementare che predomina, e giudica secondo quello” Paracelso Introduzione In questo articolo ci proponiamo di offrire un’interpretazione simbolica di uno dei primi episodi del Perceval di Chrétien de Troyes, in cui il giovane eroe uccide il Cavaliere Vermiglio e ne prende le armi assumendone il nome. Il racconto Perceval abbandonata la Guasta Foresta dove ha vissuto la sua infanzia si dirige verso la corte di Re Artù con l’intento di diventare cavaliere. Arrivato alla corte di Re Artù ne vede venire fuori il Cavaliere Vermiglio con in mano una coppa d’oro rubata al re. Il cavaliere cerca di parlare a Perceval, ma questi inebriato dell’idea di diventare cavaliere non lo ascolta e procede nel castello presentandosi nella sala del banchetto in sella al cavallo. Non ha ancora imparato le regole minime del vivere civile. Qui chiede brutalmente di essere fatto cavaliere e Keu, il siniscalco, lo apostrofa dicendogli che se vuole le armi le andasse a chiedere al Cavaliere Vermiglio. Lo sciocco mette in atto la folle idea e si reca dal cavaliere con cui ha una colluttazione, non un vero e proprio duello, e lo ammazza con un giavellotto. Ne indossa le armi e per il resto del racconto di Chrétien, sarà il Cavaliere Vermiglio. La regalità Il colore Vermiglio non è casuale, il rosso o meglio il colore porpora, è sempre stato legato alla dignità regale e ne è simbolo. Non a caso i cardinali indossano una tunica di colore rosso, che non solo ricorda il sangue dei martiri della chiesa, ma anche la loro regalità, tant’è vero che vengono chiamati principi della chiesa. In passato lo stesso Papa indossava abiti di colore rosso, poi abbandonati per il bianco a cominciare da Papa San Pio V, che provenendo dall’ordine domenicano volle indossare la bianca divisa dell’ordine anche da papa, uso poi conservato dai suoi successori. Il Cavaliere Vermiglio che si allontana dalla corte di Re Artù ha in mano un coppa d’oro altro elemento che rimanda alla regalità: l’oro è altro simbolo di re. La coppa ha un suo simbolismo politico perché era uso nell’antica Grecia nel rituale del simposio bere per sigillare gli accordi, usanza presente anche nelle popolazioni germaniche che invasero l’Impero Romano. Il cavaliere ha rubato la coppa al re rovesciandone il contenuto addosso alla regina rivendicando delle terre e sfidando il re a difendere il suo diritto. Il Cavaliere Vermiglio ha la figura dell’usurpatore e rivendica una regalità sfidando Re Artù. Perceval lo sfida e lo uccide assumendone l’identità. Perceval non conosce le regole della cavalleria e ammazza il Cavaliere Vermiglio con un giavellotto in maniera non proprio canonica per un cavaliere. È ancora il ragazzo impetuoso totalmente ignorante delle regole comunitarie. Il fatto di riuscire comunque ad ammazzare il cavaliere in un certo qual modo ne individua una sorta di predestinazione a quel ruolo. Perceval vendica l’affronto fatto al re e indossa le armi dell’usurpatore legittimamente: ha ancora molte cose da imparare, ma da questo punto del racconto in poi sarà l’unico Cavaliere Vermiglio. Perceval tramite un cavaliere della corte restituisce la coppa d’oro al re, ovvero, simbolicamente, restituisce la regalità ad Artù ripristinando l’ordine delle cose. Proseguendo il suo itinerare incontra un gentiluomo che indossa una “veste porporina” e che “per contegno teneva in mano una bacchetta” e con accanto due valletti. Dalla descrizione capiamo che ci troviamo di fronte ad una persona di alto lignaggio. La bacchetta sta a posto dello scettro, altro simbolo regale che qui troviamo associata alla veste porpora ad ulteriore testimonianza del significato regale del colore rosso. Dal gentiluomo, Gorneman di Gorhaut, Perceval riceve gli insegnamenti della cavalleria e della cortesia ed infine viene investito cavaliere con la cerimonia dello sperone. Il simbolismo del colore rosso Il rosso è il colore per eccellenza e si oppone sia al bianco che al nero che sono considerati nella loro accezione di luce e tenebra e con cui ha formato una triade simbolica nel medioevo. Il simbolo del colore rosso come tutti i simboli ha valenze sia positive che negative. Da un lato il rosso è il colore dell’amore, sia terreno che spirituale, basti pensare al Sacro Cuore di Gesù, della passione, dell’attività, delle emozioni, del sentimento, dell’espansività, della vivacità, del sangue inteso come vita, dall’altro è il colore dell’ira, della violenza, dell’aggressività, dello spargimento di sangue. Nelle avventure di Perceval si hanno tutti questi aspetti, però con un preciso ordine che va dal negativo al positivo. All’inizio il giovane è impetuoso, coraggioso non conosce le regole né della cavalleria né della cortesia o comunque del vivere civile e quindi possiede i caratteri negativi del colore rosso. Uccide il Cavaliere Vermiglio in modo, come già detto, non ortodossa. Quando, invece, ha appreso le regole della cavalleria da Gorneman i suoi duelli saranno meno cruenti, e spesso risparmierà la vita degli sconfitti e soprattutto i duelli avranno lo scopo di sanare le ingiustizie. Lo spargimento di sangue si è trasformato nel sangue della vita. Il rosso è il colore dell’amore e Perceval dimostra di possederlo sia nell’amore filiale che lo lega alla madre, nonostante l’avventatezza della sua partenza quando vedendola cadere non la soccorre e va via, sia come amante appassionato della bella Biancofiore che libera dai suoi nemici riportando la pace nel regno. Anche in questa occasione si evidenzia la funzione di ripristinare l’ordine, tipica dell’eroe. Verso la fine del racconto Perceval incontra lo zio Eremita che lo inizia alla cavalleria celeste e qui l’eroe subisce un’ulteriore evoluzione e l’amore terreno che ha provato per Biancofiore si sublima nell’Amore celeste per Dio. Anche qui il simbolismo del colore rosso subisce un’evoluzione dagli aspetti più terreni a quelli più spirituali: dal rosso dell’amore terreno al rosso dell’Amore divino. La guerra Altri significati che assume il colore rosso sono quelli legati al fatto di essere il colore del fuoco e quindi può rappresentare il fuoco, il calore, l’energia e la luce. E visto che durante la luce del giorno si svolge l’azione umana va a rappresentare anche l’azione in genere. Il bianco è il colore che rappresenta per eccellenza la luce, ma non va a simboleggiare l’azione, perché legato all’idea della luce naturale del sole non controllata dall’uomo, al contrario della luce del fuoco che quindi meglio rappresenta la volontà dell’uomo ad agire. È curioso notare che nell’immagine del Sacro Cuore di Gesù ritroviamo i simboli dei raggi per suggerire la luce e le fiamme per suggerire il calore, significati del colore rosso con cui è colorato il cuore. Il colore rosso simboleggia l’azione dell’attacco e della conquista ed è complementare al verde che rappresenta il colore della conservazione e della difesa. Perceval oltre ad avere funzione regale ha anche una funzione di conquista o meglio di riconquistare uno stato edenico per il regno di Artù. L’affronto del Cavaliere Vermiglio originario nei confronti di re Artù va inteso nel senso di un indebolimento dell’autorità, ben diversa dal potere, del re, situazione che Perceval deve sanare. Il dio Marte La simbologia del rosso nel suo aspetto negativo, come già detto, è legata alla violenza e allo spargimento di sangue legandola al mito di Marte, il dio della guerra. La scelta di identificare il pianeta Marte con l’omonimo dio è dettato dal colore prevalente del pianeta che è il rosso dovuto agli ossidi di ferro prevalenti sulla sua superficie. Un altro motivo che lega il rosso alla guerra è il rosso fuoco del metallo nella fornace. Un simbolo del dio Marte è il giavellotto, arma usata da Perceval nella sua infanzia nella Guasta Foresta per cacciare e poi utilizzata per uccidere il Cavaliere Vermiglio di cui assume nome e funzioni. In questa ottica Perceval può essere considerato un eroe solare con le funzioni tipiche dell’eroe di sanare le ingiustizie instaurando una nuova era di pace, come meglio spiegato nel nostro lavoro “Perceval re sacerdote”. Simbolismo alchemico e conclusioni Un breve cenno lo dedichiamo al simbolismo alchemico. Il colore rosso oltre a costituire una delle fasi del processo alchemico, la rubedo, rappresenta lo zolfo, e insieme al colore bianco, che simboleggia il mercurio, forma una coppia di opposti la cui unione viene denominata nozze alchemiche. Perceval, il Cavaliere Vermiglio, si unisce a Biancofiore: rosso e bianco, i due opposti che si uniscono. Il testo di Chrétien de Troyes nella sua apparente linearità, presenta in realtà una ricca e variegata simbologia che svelata apre scenari complessi ed inediti.

domenica 6 maggio 2012

Il simbolismo apocalittico del film 300

di Vito Foschi


Il film 300 è stato tacciato di essere un film violento e “testosteronico”, qualunque cosa voglia dire questo termine; una subitanea interpretazione politica-sociologica l’ha trasformato nel conflitto fra oriente ed occidente, ma al di là degli aspetti più spettacolari, 300 nasconde un simbolismo molto chiaro e se vogliamo anche semplice. Diciamolo subito il film è stato caricato di una simbologia apocalittica piuttosto evidente e sia la battaglia delle Termopili che il fumetto di Miller sono solo un pretesto per parlare dell’eterna lotta del bene e del male, sempre presente. Chi ha visto il film e letto il fumetto si sarà reso conto che esistono solo piccole differenze fra i due tipi di narrazione, ma queste differenze non sembrano casuali. Il disegnatore Miller si è ispirato alla battaglia per farne un’opera di profondo impatto visivo, ma chi ha messo mano al film ci ha aggiunto alcuni particolari per trasformarlo in un’opera simbolica.


Nella scena iniziale lo spartano Delios narra di come il giovane Leonida ammazza un feroce lupo nero dalle dimensioni mostruose e subito dopo paragona il re Serse ad una belva feroce. Il lupo ha significati positivi, come nel caso della Lupa di Roma, ma anche negativi simboleggiando la ferocia e la violenza. Il lupo nero, in particolare, è simbolo del demonio e l’accostamento e il conseguente significato sono chiari.

Lo spartano definisce l’esercito di Serse un esercito di schiavi e ciò a grandi linee è storico, perché l’impero persiano era multinazionale e le varie nazioni gli tributavano truppe che chiaramente non avevano molto interesse ad immolarsi per un re straniero che aveva conquistato i loro territori.

Al di là della storicità della battuta è lapalissiana l’idea dello scontro fra l’esercito dei greci formato da uomini liberi e l’esercito di schiavi di Serse.

La figura di Serse non ha nulla di storico, la sua figura da transessuale con piercing è totalmente inventata, ma è proprio l’ambiguità a risultare interessante. Nel film e nel fumetto Serse si proclama Dio Re e anche questo è totalmente inventato. L’ambiguità è caratteristica dell’anticristo, ed uno dei titoli con cui si presenta è quello di re di questo mondo. Beninteso, re di questo mondo e non Re del Mondo. Essere il re di questo mondo significa essere signore del mondo materiale, mentre Re del Mondo ha il preciso significato di signore della creazione in tutti i suoi aspetti anche non materiali. Gesù è Re del Mondo, perché ne comprende tutti i suoi aspetti, mentre Satana può essere signore solo della materia ed infatti tenta Cristo con regni e ricchezze, non con doni che vanno oltre il dominio della materia. Serse tenta Leonida con l’offerta del governo dell’intera Grecia. Un altro particolare interessante del film è il carro d’oro su cui viaggia Serse decorato con arieti chiaro simbolo di Satana.

Punto centrale del film è il discorso incentrato sulla ragione: “La sola speranza che ha il mondo di giustizia e ragione” grida lo spartano Delios ai suoi compagni.

La scena in cui Efialte, lo spartano deforme, va da Serse a tradire costituisce la summa di tutto il film. Serse dice di sé che lui è buono che può dare tutto, donne e potere, è sufficiente piegarsi al contrario di Leonida che aveva chiesto allo storpio di alzare lo scudo, ovvero aveva chiesto di essere uomo. E' la proposta tipica dell'Anticristo che si presenta come buono e accondiscendente e in cambio vuole solo...l'anima.

Il fanatismo degli spartani che si immolano è paragonabile a quello dei cristiani che si facevano

sbranare dai leoni. Anche la morte di Leonida ha qualcosa di cristiano. La scena finale vede il re spartano trafitto da frecce come S. Sebastiano e a braccia aperte come se fosse in croce. Probabilmente l'autore del film si è ispirato a qualche rappresentazione classica e potrebbe darsi trattarsi di un caso, ma una semplice coincidenza? Alla fine sembra che l'autore abbia considerato gli spartani alla stregua dei martiri cristiani. Ed in un certo qual modo la fede c'entra. I cristiani si immolavano per la fede in Cristo, gli spartani per la loro fede nella libertà e nella ragione. Sono interessanti i continui rimandi alla ragione, che poi è il lascito culturale dei greci a noi occidentali che i cristiani hanno pensato bene di includere nel loro sistema di pensiero. Efialte, il traditore invita Leonida ad essere ragionevole e a sottomettersi a Serse, cosa ovviamente ragionevole visto la sproporzione di forze. Ma è alla stessa ragione che si appella Leonida, ma ad una ragione sorretta dalla fede, una fede che porta a sperare che infine la ragione trionfi nella libertà e nella giustizia.

La fede nella libertà porta gli spartani a morire da uomini liberi che vivere da schiavi. Speranza e fede non ricordano qualcosa?

“.. hanno dato la vita, non solo per Sparta, ma per tutta la Grecia e per la speranza difesa da questa nazione [..]. Quest'oggi noi riscattiamo il mondo dal misticismo e dalla tirannia e lo accompagniamo in un futuro più radioso di quanto si possa immaginare”

martedì 1 maggio 2012

Le spade nella roccia

di Vito Foschi


La spada nella roccia può sembrare solo una bella favola, ma in realtà esistono almeno due spade infisse nella roccia circondate da un alone di mistero. Una di queste si trova in Italia a Monte Siepi presso Siena ed è la spada appartenuta a San Galgano, l’altra si trova in Francia a Rocamadour e sarebbe appartenuta al paladino Orlando.

Il santo nasce a Chiusdino nel 1148 da una famiglia della piccola nobiltà e la sua infanzia è segnata dalla morte del padre. La sua vita è per certi versi simile a quella di San Francesco che dopo una giovinezza dissoluta si converte e vive santamente.

La sua vita è sconvolta da due visioni di San Michele: nella prima il santo lo richiede alla vita militare, mentre nella seconda gli richiede di abbandonare tutto e di recarsi a Monte Siepi a vivere in eremitaggio. L’arcangelo Michele quale generale delle schiere angeliche è stato sempre protettore di eserciti e invocato dai combattenti e per questo Monte Sant’Angelo sul Gargano divenne santuario nazionale dei Longobardi. Le visioni di Galgano sembrano quasi inserirsi in questo solco a giustificare l’attività del cavaliere, classe sociale che nel 1100 stava formando le sue regole e codici tra cui la solenne investitura che nei secoli precedente era una semplice consegna delle armi; non dimenticando che erano gli anni delle crociate e della nascita dell’ordine Templare che presentava una novità assoluta per quell’epoca: il monaco guerriero.

Galgano quando riceve la seconda visione cerca di raccogliere i fondi per costruire una chiesa a Monte Siepi ma senza successo. Un giorno il cavallo si blocca e rifiuta di proseguire il suo percorso ed il cavaliere è costretto a lasciare sciolte le briglie al cavallo che si rimette in cammino e lo conduce al monte indicatogli da San Michele. Qui, Galgano, smonta da cavallo estrae la sua spada e la infigge nella dura roccia per farne una rozza croce su cui pregare. Ed è la stessa che è ancora possibile vedere nei resti della cappella costruita sopra la roccia. Abbandonata la sua vita d’arme inizia su Monte Siepi la sua vita da eremita affrontando secondo la leggenda anche un demone che era venuto a tentarlo ed allontanandosi dal suo eremo solo una volta per recarsi a Roma dal Papa. Muore a 33 anni e viene subito fatto santo ed esiste un documento che riporta gli atti del processo di canonizzazione.

L’altra spada nella roccia la si trova a Rocamadour, suggestivo borgo medievale arroccato su un dirupo nei Pirenei francesi tappa intermedia verso il santuario di Santiago di Compostela in Spagna e a sua volta meta di pellegrinaggi per la sua Vergine Nera. Il paese è costruito su più livelli collegati da lunghe scalinate e conseguentemente è visitabile sola a piedi. Ha origine nell’alto medioevo per opera di alcuni eremiti tra cui secondo la leggenda un certo Amadour, poi fatto santo, da cui poi Rocamadour ovvero roccia (roc) di Amadour. Nel 1100 inizia la venerazione della Madonna Nera a causa di un curioso miracolo: sopra la statua della Madonna esisteva una campana miracolosa d’epoca carolingia che suonava da sola quando nelle vicinanze avveniva un miracolo. Da quel momento il paese diventa meta di pellegrinaggi e si amplia notevolmente. Altra attrattiva di Rocamadour è Durlindana, la spada di Orlando, infissa in una parete rocciosa all’entrata del santuario sulla tomba di San Amadour. Secondo la leggenda, Orlando prima di morire nella famosa battaglia di Roncisvalle, cercò di spezzare la sua spada per non farla cadere in mani musulmane ma non riuscendovi invocò San Michele affinché  gli desse la forza per scagliarla lontano e così avvenne che Durlindana raggiunse Rocamadour infiggendosi nella parete rocciosa. Orlando lanciando la spada avrebbe profetizzato che dove sarebbe caduta la spada lì sarebbe sorta Rocamadour, costituendo il mito fondatore del piccolo borgo francese.

tratto da Il Genio Quotidiano del 14 dicembre 2011