mercoledì 29 agosto 2012

L'archeologia dei simboli della comunicazione umana

tratto da Corriere dell'arte del 7 maggio 2010

di EMILIANO PALADINI

La longevità della forza di un simbolo si misura con lo spesso re delle proprie radici culturali; e se il celebre ippopotamo dello Studio Testa incanta ancora oggi è perchè è stato fatto per durare nel tempo, avendo ancorato il contenuto della sua rappresentazione e il motivo della sua esistenza (testimoniai di una linea di prodotti per bambini) all' immagine della dea mitico-egiziana Taueret, protettrice delle partorienti e dei oro nascituri, raffigurata per il tramite del lapislazzulo e lei suo caratteristico colore azzurro sotto forma di ippopotamo. Ma è questo chiaramente uno solo degli esempi che si possono fare della corrispondenza tra le immagine dell'arte contemporanea e l'archeologia dei simboli grafici, e uno dei tanti se gli esempi li prendiamo dalla stola dell' Antico Egitto, e proabilmente non l'unico se dialoghiamo con Pietro Gallina. Di fatto a Pisa, Palazzo Blu, fino al 25 luglio si svolge la mostra dal titolo: Lungo il Nilo che documenta la nascita dell' egittologia e di conseguenza dello studio delle origini della comunicazione nana oltre la dicotomica affermazione: «tra oralità e scrittura», presentando in un percorso a tappe che ricalca idealmente il tragitto della spedizione di Ippolito Rosellini, le aspettative, le azioni, i ritrovamenti e le conclusioni di un viaggio alla scoperta dell' evoluzione dei simboli grafici primordiali voluto da Leopoldo II Granduca di Toscana e da Carlo X Re di Francia, e realizzato nei sedici mesi intercorsi tra il 1828 e il 1829 dal Professore di Lingue Orientali dell'Università di Pisa (Ippolito Rosellini) in coppia con lo studioso francese che nel 1822 decifrò la stele di Rosetta (Jean-Francoise Champollion). L'esposizione, quindi, curata da Marilina Bertò, egittologa dell'Università di Pisa, mostra i documenti originali, dipinti e manoscritti, che contribuiscono alla creazione di un vero e proprio registro di viaggio della Spedizione; laddove ciascuno di questi documenti è di volta in volta, o la copia grafica dei simboli visitati nei siti archeologici, o la trascrizione letterale dell' emozione della loro scoperta; e in tutti i casi si tratta dei primi documenti del viaggio dell'uomo all'origine delle sue parole.

sabato 25 agosto 2012

VENEZIA: I MISTERI DELLA LAGUNA

Tra spettri, Graal e magi occultisti

di Andrea Romanazzi

Quando si parla di Venezia vengono subito in mente le immagini delle bellissime gondole che vagano per i canali e la dolce atmosfera romantica che la avvolge, ma tra i campi e i calli gremiti di turisti si nascondono antiche leggende, misteri insoluti, ombre di antichi personaggi che rendono la città fortemente inquietante in questa sua gotica disinvoltura. Sarà seguendo così le tracce di questi enigmi che si perdono nella notte dei tempi che riusciremo ad entrare in contatto con il genius urbis che come novello Virgilio ci porterà tra le pieghe del tempo al cospetto di tradizioni mai dimenticate come il Graal e Cagliostro, Casanova e l’Inquisizione che ci faranno cambiare idea sul comune soprannome di "Serenissima".



IL GRAAL E I MISTERI DI SAN MARCO

La città di Venezia è ricca di leggende su antiche reliquie cristiane dato anche gli stretti rapporti economici con il mondo orientale e così ovviamente non potevano mancare storie sui Templari e il mistico Graal, la coppa nella quale, secondo la leggenda, Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo.
La via che porta questa favolosa reliquia in città è quella che conduce a Costantinopoli, l’odierna Istambul, città conquistata dai Crociati e strettamente legata al capoluogo veneto. In particolare proprio durante la Quarta Crociata cavalieri e mercanti portarono in città cultura e tradizioni mediorientali oltre ai moltissimi tesori provenienti dalla città turca come i quattro cavalli in rame presenti sulla Basilica di San Marco e che tradizione vuole avessero al posto degli occhi degli splendidi rubini. Si sa ancora che da Costantinopoli sarebbe provenuta la Corona di Spine di Gesù che Luigi IX di Francia riuscì a sottrarre alla città per portarla in Francia, presso la Sainte Chapelle, dunque non sarebbe impensabile che, nel caso fosse davvero esistito, il Graal nel suo mistico cammino fosse davvero giunto nella città.
La tradizione lo vuole nascosto nel trono di San Pietro, il sedile ove si sarebbe davvero seduto l’Apostolo durante i suoi anni ad Antiochia costituito da una stele funeraria mussulmana e decorato con i versetti del Corano oggi presente nella chiesa di San Pietro in Castello. Si narra che questa poi sarebbe stata trasferita successivamente a Bari, città legata a quella veneta da interessanti tradizioni comuni come il santo Nicola le cui due città si spartiscono le sacre reliquie. Alcune tradizioni locali, poi, vogliono che nella chiesa di San Barnaba fosse stato seppellito il corpo mummificato di un cavaliere crociato francese dal nome di Nicodemè de Besant-Mesurier, legato alla vicenda della traslazione della mistica coppa ritrovato nella zona nel 1612. In realtà non sono mai stati trovati documenti che parlassero di questo cavaliere.

I misteri legati alla religione Cristiana non trattano solo di reliquie, ma diverse sono anche le tradizioni legate a l’Inquisizione e piazza San Marco, tracce di angusti ricordi sparsi in una delle più belle piazze d’Italia e spesso celati agli occhi del comune viaggiatore. All’angolo destro della Basilica, ad esempio, è presente un cippo che la tradizione vuole utilizzato per le esecuzioni, mentre guardando le colonne del primo loggiato del vicino Palazzo Ducale, ne possiamo scorgere due di colore differente dalle altre ove, secondo la tradizione, venivano lette le sentenze di morte poi eseguite nella piazzetta antistante o nel vicino Campanile. Ecco così che il meraviglioso Campanile che svetta nella piazza nasconde anch’esso macabri ricordi, infatti è legato alla tradizione del supplizio di cheba, una gabbia in ferro sospesa nel vuoto nella quale i condannati venivano esposti al pubblico ludibrio anche per lunghi periodi sfidando le intemperie e dunque la morte che presto sopraggiungeva quasi come liberazione. Sempre tra le colonne del Palazzo Ducale, poi, era offerta l’ultima speranza di salvezza, e infatti, sul lato della costruzione che si offre al mare era presente una colonna che ancora oggi appare con il basamento consumato. Ai condannati era offerta una ultima grazia: se fossero riusciti a girar intorno alla stessa senza cadere mai dallo strettissimo basamento sulla quale poggia, operazione davvero impossibile.

I PALAZZI STREGATI E LE CORRENTI TELLURICHE
Interessanti poi sono le tradizioni legate ai palazzi stregati come Ca’ Dario e Ca’ Mocenigo Vecchia.
La fama del primo sinistramente conosciuta da tutta la città, esso fu costruito dal mercante Giovanni Dario e dedicato al genio della città come testimonia l’iscrizione "Genio urbis Joannes Dario", scritta che, secondo alcuni studiosi, nasconderebbe, anagrammata, enigmatici quanto orribili segreti: "SUB RUINA INSIDIOSA GENERO" e cioè colui che abiterà sotto questa casa andrà in rovina. Per alcuni la costruzione sorgerebbe su un nodo di energie negative che si trasferirebbero all’intera dimora, quella che Fulcanelli definirebbe una vera e propria dimora filosofale. In realtà l’intera città sorgerebbe su una rete di correnti telluriche, positive e negative, che caratterizzerebbero così la sua urbanizzazione, lo stesso Canal Grande sarebbe la rappresentazione del temibile serpente, simbolo delle enigmatiche forze che in alcuni punti diventerebbero fortemente palesi. Del resto nel passato era normale che ci fossero luoghi benefici e malefici, in oriente ove si pratica il feng shui, cioè una disciplina che permette di costruire una casa recependo le onde benefiche del "grande drago" che dorme nel sottosuolo. Sarà proprio il drago a caratterizzare la città, infatti esaminiamo una qualunque cartina di Venezia vediamo il Canal Grande snodarsi come un serpente o un dragone, tagliando esattamente in due parti la città. Abbiamo così la testa, "caput draconis", ed una coda "cauda draconis".
Alla fine di quest’ultima troviamo l’isola di san Giorgio, con l’omonima chiesa, scelta non casuale se pensiamo che nella tradizione cristiana san Giorgio è il santo che uccide il drago, e quindi che esorcizza il serpente veneziano, mentre dalla parte opposta vi è la Basilica di San Marco, quasi un modo per esorcizzare queste energie.
E’ proprio posizionato nella "cauda" che troviamo Ca’ Dario, il misterioso palazzo la cui maledizione colpisce tutti i proprietari che sono morti suicidi o comunque di morte violenta, tra i quali ultimamente Raul Gardini e il tenore Mario del Monaco.
Per quanto riguarda invece la seconda costruzione, è silente testimone della visita del filosofo Giordano Bruno in città, ospite proprio della famiglia di Mongenigo che, dopo aver cercato di carpire le sue conoscenze alchemiche, lo denunciarono come stregone alle autorità veneziane costringendolo a riparare a Roma ove poi sarà giustiziato. Tradizione vuole che ancora in quell’edificio si manifesti il fantasma dell’eretico in cerca di giustizia.

ALCHIMIA VENEZIANA

Moltissimi sono stati i maghi, stregoni e alchimisti presenti nella laguna, tra i quali spiccano, oltre al già citato Giordano Bruno, Casanova e Cagliostro. Dati gli stretti rapporti con il Medioriente, Venezia è stata da sempre crogiuolo di culture, il toponimo del quartiere "Giudecca" sembrerebbe proprio segnalarci la presenza dei suoi primi abitanti, i giudei, da sempre maestri di alchimia e studiosi di Cabala. Moltissime sono così le leggende presenti nell’antico e nuovo ghetto che riguardano gli rabbini e i loro studi di alchimia.
Nella città, poi, sono presenti le conoscenze alchemiche degli arabi le cui tracce ritroviamo nel quadrante della torre dell’orologio ove, tra simboli astronomici e astrologici sono presenti raffigurazioni di mori. Più sconcertanti ed evidenti sono però le simbologie arabe presenti nelle vicinanze della porta della carta vicino la Basilica di San Marco. Qui sono rappresentati in un angolo i così detti "quattro mori", i tetrarchi Diocleziano, Galerio, Massimiliano e Costanzo.
In realtà la tradizione lega queste figure all’alchimia come testimoniato da un fregio alla base dello stesso raffigurante due putti e due draghi intrecciati che portano un cartiglio con la scritta in veneziano arcaico "uomo faccia e dica pure ciò che gli passa per la testa e veda ciò che po’ capitargli".
Sempre sullo stesso lato della Basilica sono presenti due colonne provenienti da Acri ove cultura cristiana e mora si mescolano in una mistica commistione di immagini tra le quali spiccano tre enigmatici criptogrammi per alcuni invocazioni al dio del mussulmani Allah.
Tra i personaggi più enigmatici, però, sicuramente spicca Casanova, mago e scrittore nato nella città il 2 Aprile 1725 e sepolto nella chiesa di San Barnaba anche se della sua tomba sono state perse le tracce. La sua storia "misteriosa" parte all’età di otto anni quando, per guarirlo da un male che gli costringeva a tenere sempre la bocca aperta, la zia lo portò da una strega guaritrice. Sarà da allora che lo scrittore iniziò ad interessarsi alle arti magiche che gli procurarono problemi con l’Inquisizione e che lo portarono ad esser imprigionato nei famosi "piombi" veneziani dai quale riuscì in una clamorosa fuga. Sicuramente egli ebbe contatti con la massoneria e con Amadeus Mozart per la realizzazione del suo "Don Giovanni" ispirato anche alla vita del veneziano e con il famoso Giuseppe Balsamo, noto come Conte di Cagliostro proveniente da Aix de Provence. Secondo la tradizione i due si incontrarono nella città nel 1769 per scambiarsi formule e magici rituali e le formule per l’elisir di eterna giovinezza.


giovedì 23 agosto 2012

Chrétien de Troyes

Chrétien de Troyes è autore di romanzi del ciclo arturiano tra cui Perceval o il racconteo del Graal, Tristano e Isotta, Lancilotto o il cavaliere della carretta.
Vi rimandiamo alla voce di Wikipedia su Chrétien de Troyes:


http://it.wikipedia.org/wiki/Chr%C3%A9tien_de_Troyes


mercoledì 18 luglio 2012

L’iconografia dei Re Magi

pubblicato in origine su Archeologia & Cultura n. 3 del 7 febbraio 2010

di Vito Foschi

In questo breve scritto vorrei soffermarmi sulla rappresentazione classica dei Re Magi, per poterne indicare l’origine. Si è subito portati a pensare che le immagini dedicate ai magi sono tratte dal racconto evangelico, ma questo non è propriamente vero; siamo talmente abituati a certe tipi di rappresentazioni da non conoscerne più l’origine e pensare che vengano dal Vangelo, quando la loro origine è ben diversa.
L’immagine classica dei re magi li vuole di tre razze diverse, europea, asiatica, africana a rappresentare i tre continenti allora conosciuti, di tre età diverse, giovane, di mezza età, vecchio a rappresentazione delle tre età dell’uomo. Questo ad indicare come tutti gli uomini, di qualsiasi origine ed età venivano a tributare il proprio omaggio al Figlio di Dio, significando l’universalità della fede cristiana che non era solo per alcuni uomini, ma per tutti. Inoltre la parola mago indica un sacerdote pagano, a mostrare l’apertura del cristianesimo alle genti pagane, cristianesimo che altrimenti sarebbe rimasto confinato al mondo ebraico. La loro regalità viene quasi a compensare in qualche modo la nascita in povertà in mezzo ai pastori, per ribadire, che Cristo non è venuto solo per i poveri, ma per tutti.
L’unico vangelo che parla dei Magi è quello di Matteo, mentre l’altro vangelo che racconta la nascita di Gesù, quello di Luca, non li menziona, anzi inserisce il battesimo del Bambino al tempio di Gerusalemme, introducendo un problema di coerenza fra  i due vangeli. Da questo punto di vista la loro presenza nell’unico vangelo di Matteo sembrerebbe quasi un’aggiunta per giustificare l’apertura del cristianesimo al mondo pagano.
Nel vangelo di Matteo non si indica il loro numero e non li si descrive, ma si parla solo dei tre doni: solo il numero dei doni coincide con il numero dei magi nella loro classica rappresentazione. Si racconta dell’incontro con Erode e dell’omaggio al Bambino e poco più. Il passo evangelico è piuttosto avaro di notizie su questi personaggi.
In realtà tutta l’iconografia sui Re Magi compresi i nomi deriva dai racconti contenuti nei cosiddetti vangeli apocrifi, che considerate tutte le rappresentazioni tanto apocrifi non dovevano essere. Apocrifo è parola d’origine greca che sta per nascosto, ma tali racconti, a parte quelli palesemente in contrasto con l’insegnamento della Chiesa, anche se non accettati ufficialmente erano ben diffusi e tollerati dalle autorità ecclesiastiche visto che molti di loro sono stati la base per decorazioni di edifici religiosi. Come spesso si dice le pitture e le sculture rappresentavano la Bibbia degli analfabeti, che poi tanto analfabeti non dovevano essere, perché a volte i significati di tali immagini non sono immediatamente intelligibili. I Vangeli ufficiali si soffermano sulla predicazione pubblica di Gesù perché rispondono ad una esigenza teologica, ma non rispondono alle curiosità del popolo che chiedeva per esempio cosa avesse fatto Gesù nella sua infanzia o mentre era in Egitto e così via. A queste domande rispondono i vangeli apocrifi classificati come vangeli dell’infanzia, unendo fantasia e racconto evangelico. Così visto che il racconto evangelico non diceva nulla dei misteriosi magi, hanno provveduto i vangeli apocrifi a darne una descrizione, a raccontarne la loro storia e la loro origine dando idee ai vari artisti chiamati a rappresentarli.

mercoledì 4 luglio 2012

Le maledizioni nel mondo antico

di Vito Foschi 

tratto da Archeologia & Cultura n 24 del 6 dicembre 2009


Nel mondo antico greco-romano erano diffuse varie pratiche magiche, tra le quali le cosiddette defixiones che hanno avuto una diffusione temporale piuttosto ampia dal V secolo avanti Cristo al V secolo dell’era volgare. Il nome deriva dal verbo defigere che significa letteralmente legare, fissare, infiggere ed erano una sorta di maledizione scritta. Lo scopo di tale pratica magica era nella maggior parte dei casi quella di nuocer ad un avversario e pertanto lo studioso Allondet le ha classificate in base all’oggetto del contendere in 5 tipi: giuridiche, erotiche, commerciali, agonistiche, e contro i ladri e le maldicenze. Eccetto l’ultimo gruppo più generico di protezione contro i ladri, tali maledizioni mirano a rendere inoffensivo un avversario in una qualche disputa, sia che si tratti di un concorrente commerciale, un testimone in tribunale, un corteggiatore o addirittura un marito di una donna o un concorrente in una contesa sportiva.
La maledizione è innanzitutto un rito ed esistono dei papiri che lo descrivono in maniera particolareggiata nelle sue diverse varianti risultando a volte anche di una certa complessità. Nella sua essenza il rito consiste nel trascrivere una formula di maledizione su un supporto poi da seppellire in un luogo apposito. La formula va recitata mentre si incide, e l’incisione sembra quasi un rafforzamento per assicurarne l’efficacia. Quelle che sono pervenute fino a noi sono delle iscrizioni su lamine di piombo, ma potevano essere su papiro o cera, materiali che non sopravvivono al tempo.
Nelle iscrizioni il termine legare è accompagnato dall'aggettivo “in basso” che ha lo scopo di rafforzare il verbo indicando l'atto di immobilizzare, chiedendo per esempio di immobilizzare la lingua di un testimone o le membra di un atleta, ma a questo significato si accompagna il concetto di “dedicare” ovvero l’invocazione di una divinità affinché agisca contro l’avversario. L’utilizzo di tale termine non è casuale perché le divinità a cui si rivolge il rito sono quelle sotterranee. Nella magia c’è un rovesciamento del senso comune, così come la religione si rivolge agli dei del cielo così la magia si rivolge alle potenze infere.
Da ciò l’importanza del nascondimento della lamina che normalmente veniva nascosta in tombe, pozzi, anfratti, sorgenti o gettata in mare. In poche parole si cercava di portarla più vicino possibile alle potenze che si evocava in aiuto. Il particolare uso delle tombe per il seppellimento aveva lo scopo di usare l’anima del morto come messaggero, e si sceglieva un defunto qualsiasi senza speciali caratteristiche al contrario di altre operazioni magiche ove si cercava la tomba di morti in maniera violenta o prematuri. I ritrovamenti archeologici di tavolette di defissioni sono state fatte in varie tombe che non avevano nessun particolare che le rendesse diverse le une dalle altre.
Altro motivo del seppellimento era quello di non farle trovare, perché l’eventuale ritrovamento della tavoletta e la susseguente distruzione avrebbe causato la perdita di efficacia della maledizione come leggiamo nella letteratura sui primi santi cristiani che si ritrovano ad avere a che fare ancora con la magia del mondo pagano.
Alcune defissioni più elaborate hanno traccia di un chiodo che infilzava la lamina a rafforzare il concetto di legare l’avversario o deformate ad indicare anche fisicamente l’azione a cui doveva essere sottoposta la vittima della maledizione, il tutto sfruttando il concetto di similia similibus ovvero il simile richiama il simile.
In un variante del rituale trovato scritto su un papiro sopravvissuto ai secoli si descrive la costruzione di una statuina su cui incidere la maledizione incidendo su ogni parte del corpo un nome di un demone specifico che si sarebbe occupato di danneggiare la parte a lui prescritta. Tale rituale non doveva essere molto diffuso, perché doveva risultare piuttosto costoso. Per la realizzazione di una maledizione ci si affidava ad un “addetto ai lavori” che chiaramente si faceva pagare in base alla difficoltà.  I ritrovamenti di statuine è più raro rispetto alle tavolette di cui al contrario si possiede un buon numero.
Per chi volesse visionare alcuni di questi manufatti può visitare la Sezione Epigrafica del Museo Nazionale Romano presso le Terme di Diocleziano dove sono custoditi i ritrovamenti effettuati nello scavo della fontana di Anna Perenna, ritrovata nel 1999 durante lo scavo di un parcheggio nel quartiere Parioli a Roma. Anna Perenna è una antica divinità romana risalente a tempi preistorici di cui si conosce poco che si festeggiava alle idi di marzo, l’antico capodanno romano. Il suo nome potrebbe significare nutrimento perenne e probabilmente risulta legata a una qualche forma di culto agricolo come auspicio di abbondanza. Nella fontana tra tante tavolette, sono state trovate alcune statuine, e così in una visita si può avere idea completa delle defixiones.

venerdì 29 giugno 2012

I Miracoli Eucaristici di Lanciano

Di Nicoletta Camilla Travaglini

Nelle leggende fiorite intorno al Graal si parla di alcune sue peculiarità tra cui quella che, quando essa è presente sull’altare nel momento solenne della celebrazione dell’Eucarestia, potrebbe tramutare il vino in sangue e l’ostia in carne cosa che ricorda molto da vicino un famoso evento soprannaturale accaduto a Lanciano.  
Secondo un’antica leggenda,  Lanciano fu edificata da Solima compagno di Enea  e fondatore, tra le tante cose, anche di Sulmona, il quale impose a questo piccolo villaggio, il nome di suo fratello Anxa, disperso durante la fuga da Troia.
Anxa o Anxanon divenne in breve tempo la capitale dei Frentani, potente popolo italico, resa famosa anche, presso i romani  dai suoi mercati annuali.
Nel medioevo al nome Axanon venne aggiunto l’articolo così da diventare Lanxanon e quindi Lanciano.
Altre fonti sostengono che il toponimo Lanciano sia da ascrivere alla corruzione del nome del famosissimo centurione romano Cassio Longino, che ferì con la sua lancia il costato di Gesù morente. Egli fu citato per la prima volta, senza rivelarne il nome, però, nel Vangelo di San Giovanni; nei Vangeli Apogrifi, Nicodemo, invece, parla di un certo Longino, come uno dei tanti aguzzini del Nazzareno.
La vita di San Longino, comunque, è ancora avvolta nel mistero a cominciare dalla sua mitica lancia per finire ai Vasi Sacri,  enigmatiche reliquie , custodite a Mantova.
Questo personaggio dei Vangeli apocrifi,  è presente, tra gli altri in alcune leggende medioevali abruzzesi, nelle quali si afferma  che Cassio Longino era figlio di patrizi lancianesi e attendente di Ponzio Pilato, anche lui abruzzese, nonché  informatore del medesimo in  Palestina. 
Leggende che potrebbero avere riscontri archeologici se si presta fede ad alcune fonti nelle quali si dice che nelle vicinanze della chiesa di San Francesco, vi fosse una fontana pubblica pagata da un certo Cassio Longino, come recita l’epigrafe apposta su di essa : “Cassio Longino fecit”.  Secondo altri esso si ubicava lungo il tratturo l’Aquila-Foggia alle porte di Lanciano.
Durante l’iter processuale che portò alla condanna a morte del Nazzareno, Longino, il cui nome deriva dalla parola lancia e forse da qui l’associazione con l’arma più potente e ricercata della cristianità, ebbe l’incarico di seguire da vicino le sorti del Cristo.
Cassio fu molto scrupoloso nel suo lavoro, rimanendo accanto al prigioniero anche durante l’agonia della crocifissione e infliggendogli, forse, il colpo letale. Alcune gocce di sangue e d’acqua sgorgarono dalla ferita, il liquido vermiglio scivolò lungo la lancia fino a toccare le sue mani, che portò, inavvertitamente, sugli occhi che guarirono improvvisamente da una miopia degenerativa; passato il primo momento di stupore, egli raccolse una manciata di terra e sangue e la nascose. 
Questa forzata vicinanza con le dottrine  cristiane e il prodigio a di cui fu testimone lo portarono a convertirsi alla nuova religione e così, dopo la morte di Gesù, si congedò dal esercito, prese i suoi tesori: la lancia, la spugna imbevuta di aceto e, ovviamente, la terra contenete il sangue sacro e partì. Alcune fonti  dicono che si fermò a Mantova dove oggi si possono ammirare i cosiddetti “Vasi Sacri” contenenti il Sangue Sacro, altri affermano che fosse tornato alla sua natia Lanciano, pare senza i suoi tesori,  dove iniziò a fare proseliti. A Pilato e al Sinedrio la cosa non piacque e così fu emanato un mandato di cattura nei confronti di Longino che raggiunto da alcuni sicari, fu decapitato e la sua testa fu portata a Gerusalemme come monito.
Gli abitanti di Lanciano commossi dal sacrificio del soldato, eressero sul antico tempio di Marte una chiesa dedicata a San Longino, dove, essendone diventato il primo vescovo ed evangelizzatore, fu anche, forse tumulato qui, secondo quando si apprende da ritrovamenti recenti di mummie che potrebbero avvalorare tale tradizione. 
  Nel VIII secolo tra le sue mura si consumò  un evento sovrannaturale. Era il 750 d.C. circa, quando con l’acuirsi delle “guerra” delle icone e reliquie religiose, vi  fu, anche, un flusso migratorio  notevole di monaci greci verso l’Italia e un gruppo di questi, giunti a Lanciano come profughi, diventarono custodi del tempio di San Longino.
Il protagonista del prodigio fu, appunto, uno di essi, per la precisione un monaco dell’ordine di San Basilio; il quale non avendo una fede molto ferma, dubitava del mistero dell’Eucaristia; le sue incertezze diventavano ogni giorno più forti e così durante una  funzione, dopo aver fatto la doppia consacrazione, l’ostia che  aveva in mano si trasmutò in Carne  viva e il vino si raggrumò in cinque coaguli di sangue.
La leggenda vuole che due confratelli, sconvolti da tale evento e  vergognandosi della fede traballante del celebrante, rubarono il documento originale di cui non si ebbe più traccia. 
Questo “Miracolo”, come viene descritto da una lapide del 1636, ebbe da subito ampia risonanza presso i fedeli e non solo; in seguito a ciò, i basiliani dovettero cedere la chiesa ai più influenti benedettini dell’Abbazia di San Giovanni in Venere.
Era il 1252 quando il vescovo di Chieti, Landolfo Caracciolo, su suggerimento di  Papa Innocenzo IV, donò il tempio ai Frati Conventuali Minori dell’ ordine di San Francesco. 
Nel 1258 i nuovi custodi, iniziarono a costruire un nuovo complesso ecclesiastico sulle rovine di quello preesistente, dedicato a San Francesco d’Assisi fondatore dell’ordine.
Questo “Miracolo” fu posto in una scrigno di avorio argentato, conservato nel sacello di  destra dell’altare maggiore. Successivamente, per paura delle scorrerie pagane, i resti sacri  furono murati in una oscura e angusta cappella, di cui oggi rimane testimonianza nell’alta e stretta monofora gotica.
Riportate alla luce nel 1636, esse furono risposte per 266 anni circa, dietro una grata cubica, sigillata ulteriormente da due piccole porte di legno chiuse da quattro chiavi diverse, all’interno della Cappella della Famiglia Valsecca, dove ancora si può leggere l’epigrafe commemorativa, oltre che ammirare gli affreschi che decorano la navata destra dell’imponente edificio, raffiguranti Giuditta con la testa di Oloferne, Ester al cospetto di Assuero, Rachele al pozzo, Sant’ Antonio abate e San Giovanni Battista vestito di pelle e con un mantello rosso che sorregge con la mano sinistra una tavola sulla quale è incisa una scritta gotica che dice: E CCE AGNUS DEI E CCE QUITOL il resto è andato perso nei secoli.
Successivamente il sangue venne riposto in un’ampolla di cristallo e dal 1713 l’Ostia è custodita in un ostensorio argento a forma di raggira ed è in ostensione dal 1902  su un monumento marmoreo al centro dell’abside della chiesa barocca del complesso ecclesiastico di San Francesco.
Le reliquie, a distanza di più di dodici secoli, oggi si presentano così: l’Ostia ha la grandezza di un ostia “Magna” ed è leggermente scura ed ha un colorito della carne viva se lo si guarda in trasparenza; secondo analisi istologiche, essa è vera carne e presenta tracce di tessuto cardiaco; inoltre, pare che, ad un esame fatto al microscopio, si rilevano particelle di pane non trasmutate.
Il sangue  coagulato ha un colore terreo con sfumature  giallo-ocra; secondo la scienza esso è sangue appartenente al gruppo sanguineo AB, che pare sia lo stesso “dell’Uomo della Sindone” e del Volto Santo di  Manoppello.
Osservando il Miracolo Eucaristico di Lanciano, che è precedete a quello di Bolsena ed in seguito al quale la Santa Chiesa istituì la ricorrenza religiosa del “Corpus Domini”, ci si rende conto dell’ottimo stato di conservazione, nonostante esso sia stato, per un lunghissimo lasso di tempo, esposto all’azione di agenti atmosferici, fisici, biologici e, nei primi secoli, all’incuria dell’uomo.
Come abbiamo detto una delle caratteristiche attribuite al sacro calice meglio conosciuto come Graal è quella di trasmutare il vino in sangue e l’ostia in carne durante l’eucarestia, come potrebbe essere  documentata dal Miracolo Eucaristico di Lanciano che attesterebbe, così, la presenza o, perlomeno il suo passaggio in  questo luogo.
Tale evento, che come abbiamo detto ebbe ampia eco in tutto il mondo allora conosciuto, poiché Lanciano all’epoca dei fatti era una cittadina molto nota, si potrebbe supporre che tale evento sovrannaturale stia alla base del ciclo graaliano e, addirittura, ne sia l’artefice, poiché esso è precedente alla nascita di tale topos mitopoietico.  
Parlando del Graal a Lanciano, presso il Museo Diocesano, vi è un piatto d’oro, su i cui bordi vi sono incisi delle lettere in una lingua sconosciuta.
Nello stemma comunale di Lanciano vi è raffigurata una lancia dorata che è forse ispirata alla sacra lancia di Longino, reliquia  che, secondo la tradizione, accompagnerebbe il Graal e che sarebbe stata data in dono ai lancianesi da Carlo Martello in ricompensa per l’appoggio offertogli contro i Longobardi teatini.
Come abbiamo accennato a Lanciano vi furono non uno bensì due miracoli eucaristici!
Durante il  XIV  una donna maltrattata, umiliata e tradita dal marito, ebbe come ultima razio quella di ricorrere alla magia per far cessare questo stato di cose!
Così dopo aver preso consiglio presso una fattucchiera la donna andò in chiesa e fingendosi di comunicarsi, rubò un ostia consacrata per poter mettere in atto il suo piano diabolico.
Tornata a casa con la particola la donna e la fattucchiera presero un mattone incandescente e vi buttarono sopra l’ostia che…iniziò a sanguinare. La donna spaventata cerco di pulire ma… fu tutto inutile. Così presa la particola sanguinolenta e il mattone, avvoltili in una tovaglia li seppellì nella stalla.
Il marito alla fine della sua giornata di lavoro come mulattiere, nel momento in cui faceva ritentare gli animali nella stalla, questi si rifiutarono anche dopo che l’uomo li picchiò.
 Dopo vari tentativi anche violenti, gli animali entrarono e una volta entrati questi si inginocchiarono nel punto in cui la donna aveva seppellito l’ostia miracolosa.
 L’uomo incuriosito ed impaurito scavò nel punto dove si erano chinati gli animali e trovò il fagotto, che dopo averlo aperto chiese spiegazioni a sua moglie, la quale, il giorno seguente andò a confessarsi dal priore del convento di Sant’Agostino,che era marchigiano, il quale prese in consegna il sacro involucro e durante la notte fuggì verso Offida, il suo paese d’origine portandosi dietro anche le reliquie che ancora oggi sono conservate lì!

martedì 26 giugno 2012

Celestino V

di Nicoletta Travaglini

Pietro Angelerio, futuro Papa Celestino V, nacque da una famiglia di contadini molisani, nel 1210 circa. Egli nacque a Isernia secondo quando afferma Maria Concetta Nicolai nel libro “La Preghiera di Celestino eremita e Papa”: << … dalla nascita che avvenne verso il 1210 undicesimo in una numerosa famiglia di dodici figli, probabilmente a Isernia, nel quartiere S. Angelo…
I genitori “quorum nomina sunt Angelerius et Maria” erano agricoltori quasi certamente proprietari, anche se non ricchi . >> 
Orfano di padre in giovane età, fu educato dalla madre al rispetto, timore e devozione di Dio.
Intorno al 1230 divenne un frate benedettino, presso un abbazia di Benevento e dopo pochi anni partì alla volta di Roma per incontrare il Papa. Il suo viaggio fu lungo e costellato da episodio di eremitaggio e contemplazione. Dopo aver parlato con il Pontefice e aver ricevuto gli ordini religiosi Pietro, iniziò una vita da asceta, rifugiandosi in una grotta dove secoli prima aveva dimorato Papa Vittore III. In questo lungo lasso di tempo egli progettò e costruì, insieme a suoi discepoli, la chiesa di Santo Spirito a Majella, completamente scolpito nella roccia.
Un antica leggenda legata alla nascita di questo luogo di culto narra che il 29 Agosto, giorno della decapitazione del Battista, Pietro guardando fuori dalla finestra della sua cella, vide nel cielo una schiera di figure celesti che andavano dagli angeli agli arcangeli, dal Re Davide a San Giovanni Evangelista che con abiti talari, celebrò messa, mentre la Vergine Maria, con Gesù ed il Battista assistevano alla funzione che fu benedetta da Dio. L’aria si riempì di una musica celestiale, mentre le campane iniziarono a suonare annunciando il lieto evento della nascita dell’abbazia di Santo Spirito a Majella.
Intanto i seguaci del Santo Eremita erano diventati così tanti che Pietro pensò bene di darsi una Regola e di essere riconosciuto anche come ordine religioso e così in compagnia di alcuni suoi fedelissimi, partì alla volta di Lione per conferire con Papa Gregorio X, durante uno dei tanti concili. Sulla via del ritorno dalla Francia il frate, dopo aver ottenuto dal Papa ciò che chiedeva, si fermò presso L’Aquila, allora ancora in via di sviluppo e qui vi fu un altro prodigio legato questa volta alla figura della Madonna di cui l’Angelerio era un devoto servo. 
Era una notte scura dei primi mesi del 1275 quando l’umile fraticello fece uno strano sogno mentre si trovava su una poggio alberato, presso il colle Madio o Maggio nella vicinanze dell’Aquila, adiacente a un piccolo altare dedicato alla madre del Nazareno. Mentre dormiva gli comparve la Madonna che gli chiese di erigere un santuario in suo onore proprio in quel luogo. In breve tempo si iniziarono i lavori di costruzione della Basilica dedicata alla Madonna che furono terminati solo verso la fine del penultimo decennio del 1200.
Passarono gli anni ed anche i papi si succedevano sul soglio di Pietro, finché nel 1292 alla morte di Papa Nicola IV, una grande confusione, alimentati da una sete di potere temporale si insinuò sull’elezione  del nuovo papa. Per ben due anni il soglio pontificio rimase vacante finché non si decise di eleggere all’unanimità un papa superpartes, questi fu individuato  nella persona di Pietro Angelerio, il frate del Morrone. Era il giorno della decapitazione del Battista del 1294 quando fra Pietro da Morrone, con il nome di Celestino V divenne Papa e la cerimonia, con molti malumori da parte della chiesa, si svolse nella città dell’Aquila, poiché il pio eremita volle essere incoronato sommo pontefice della chiesa nella basilica di Santa Maria di Collemaggio.
Egli rimase in questa città per diversi mesi ed è qui che istituì la “Perdonanza  Celestiniana”, con la quale Bolla egli rimetteva i peccati a tutti coloro che passava sotto la Porta Santa della Perdonanza, con il pentimento nel cuore, il 29 Agosto di ogni anno.
Pietro aveva accettato la carica di Papa con molta riluttanza e così solo dopo pochi mesi di pontificato, agli inizi di dicembre rinunzio al  suo uffizio. Era la vigilia di Natale quando il suo successore Bonifacio VIII, prese il posto di Celestino V.
Egli, comunque, aveva un forte ascendente sui suoi discepoli e il suo Ordine religioso era abbastanza vasto e potente da fare paura anche al Vaticano e così fu data disposizione che Pietro fosse portato a Roma, ma Celestino riuscì a rifugiarsi prima sul Monte Morrone e poi tentò di imbarcarsi per la Grecia, ma una tempesta fermò il suo tentativo di fuga e così fu ripreso dai messaggeri del papa ed incarcerato nella rocca di  Fumone presso Anagni dove morì il 19 Maggio 1296.
E’ notorio che molte leggende contengano un fondo di verità, allora è legittimo chiedersi se la data della presunta morte naturale di Celestino V non celi in realtà una simbologia ben precisa!!
Si narra, infatti, a proposito  della morte del Santo eremita, che egli perì a causa di un chiodo conficatogli, da alcuni sicari, nel cranio, se si accetta questa tesi, quindi, la data della sua morte forse assume una valenza fortemente emblematica!
Egli morì a maggio il mese dedicato alla Madonna, che come ricordiamo è l’evoluzione del mito della Grande Madre, dea universale creatrice del mondo nonché personificazione della dea Luna ed elemento femminile di Dio. Egli fu ucciso nel 1296, la cui radice quadra è 36, sommando questi due numeri 6+3 si ottiene il 9 numero ricorrente della città dell’Aquila e nella tradizione esoterica perché rappresenta la ciclica ripetizione del 3 numero perfetto per eccellenza.
La chiesa di Santa Maria di Collemaggio, inoltre, è stata costruita con pietre policrome rosse e bianche che ricordano le croci templari, con la stessa tecnica viene  costruita secoli dopo la chiesa che ospita il Volto Santo a Manoppello.
Quale può essere il nesso che unisce questi due edifici, poiché si dice che come per Celestino, anche la Veronica che è in ostensione a Manoppello, sia stato recapitato a un notabile del paese da uno sconosciuto, forse un Angelo, se non l’Arcangelo Michele in persona, sul sagrato della chiesa di San Nicola.
Sempre in tema di elementi simbolici, sembra esservi una linea immaginaria che collega Lione all’Aquila; Celestino V, infatti, tornando dalla Francia si fermò presso il capoluogo abruzzese, o meglio quello che sarebbe stato la futura città. Una possibile ipotesi potrebbe essere quella di analizzare il significato dei toponimi delle città in questione. Lione per assonanza potrebbe essere la corruzione del nome “Leone”. Questo animale, simbolicamente, si identifica con Gesù definito anche “Leone di Giudea”; con Buddha, Krishana e, naturalmente, con il Sole come emblema di potenza, forza, comando e della luce che brilla in eterno sconfiggendo le tenebre e quindi il male. Esso rappresenta anche la giustizia e il Nazareno nella sua veste di giudicante supremo.
 L’evangelista Marco ha come simbolo il leone, che è anche la personificazione della città di Venezia. La parte anteriore di questo animale, compreso la testa, è l’allegoria della spiritualità del Cristo, contrapposto alla sua natura terrena, quindi mortale, rappresentato dalla parte posteriore dell’animale. Questa fiera, raccoglie, simbolicamente, in sé, anche una valenza sia positiva che negativa, poiché esso è anche la parte iraconda ed indomabile di ogni essere, così egli è nello stesso tempo simbolo della luce e dell’ombra, della bontà e della malvagità, del Cristo e del Diavolo etc.
Nella sua dualità esso è anche il simbolo della morte e della rinascita e, ovviamente,  della resurrezione, inoltre presso gli egizi, era lo spirito guardiano della parabola che compiva il Sole in cielo, dal suo sorgere fino al tramonto; per questo motivo, il leone, venivano raffigurati a coppie, schiena contro schiena. Esso rappresentava il giorno trascorso ma anche il futuro, come Giano Bifronte, da cui deriverebbe il nome Giovanni, come il Battista o come l’Evagelista, che esprimono l’alfa e l’omega della cristianità.
Anche alcuni Angeli hanno l’aspetto leonino, per rimarcare la loro natura non del tutto benevola, ma anche combattivo, violenta, indomita e intelligente. Esso era l’animale totemaico di Cibele, e questi venivano rappresentati sempre con la bocca semi aperta, come simbolo dell’organo sessuale femminile; Cibele è una delle tante “espressioni” della “Grande Madre”, demiurgo del mondo.
L’Aquila è l’alterego celeste del Leone; è anche la stilizzazione della Croce, quando ha le ali spiegate. Essa è uno piscopompo, poiché trasporta le anime dei trapassati a Dio; il suo volo verso la Terra, è la rappresentazione della luce che feconda il suolo. Egli è il simbolo dell’Evangelista Giovanni, l’autore dell’Apocalisse!!!
Quando l’Aquila vola verso sinistra è presagio di castighi divini poiché l’Onnipotente punisce l’uomo con la sua sinistra, che è anche la sua parte negativa. La tradizione biblica e non solo rappresenta, gli Angeli come delle aquile.  
Questo rapace è l’immagine celeste e solare insieme, per questo motivo è la regina del cielo ed alterego di Zeus. L’aquila vola verso il sole mentre i suoi occhi non temono di fissare l’astro troppo abbagliate,poiché, ha il cuore puro e il coraggio di fissare, la luce, come immagine della divinità.
 Ella è Cristo che sale al cielo, in quanto simbolo della splendore e grandezza. Nella mitologia classica, ella, seguiva la traiettoria del sole fino al suo punto più alto, quando esso era a perpendicolare con la terra, fino a incontrarsi con fulcro della terra e momento di massima espressione della luce che vince le tenebre.
Simbolo della potenza dell’Impero Romano e del Sacro Romano Impero poi, era come l’araba fenicia che rinasceva dalle proprie cenerei, così l’aquila simboleggiava la rinascita spirituale, oltre che la contemplazione del Divino, come facevano i Santi Asceti.
L’Aquila poteva avere anche valenza negativa, in quanto rovesciando la Croce simbolo della morte e resurrezione della parte umana dell’Onnipotente, la si trasformava in un simbolo demonico, inoltre essa è un rapace e come tale è portato, per sua natura, alla violenza, alla brutalità e all’ingordigia.
Acerrimo nemico del serpente, che per gli antica era simbolo della Grande Madre Terra, il sincretismo cristiano lo ha trasformato nella personificazione del Diavolo, raffigura, la contrapposizione tra sfera celeste e quella terreste, tra bene e male, ricordando la titanica lotta tra gli Angeli e i Demoni.
Comunque al di là di tutta una simbologia che ci riporta ad elementi astratti, qualcosa di concreto nella vita e nella morte del Papa Eremita tuttavia esiste!
Andiamo per ordine, iniziando dal fatto che Celestino V probabilmente non è stato l’illetterato contadino delle campagne molisane, ma alcuni sostengono che la sua famiglia fosse di origine longobarda, per la precisione nobili di campagna con una certa istruzione.
Pare che sia vissuto per diversi anni nell’abbazia di San Giovanni in Venere, in Abruzzo e qui sembra abbia addirittura preso i voti!
Questo luogo di culto abruzzese, all’epoca dei fatti narrati, era una delle più potenti abbazie del centro Italia, tanto potente da finanziare la Quarta Crociata!
Pare che sempre durante i suoi peregrinaggi, il Santo Eremita abbia anche fondato una cittadina, abbarbicata ai piedi della Majella, Fara Filiolum Petri, cioè la Fara dei Figli di Pietro, in altre parole di Pietro da Morrone!
Come si è detto sopra a proposito della fondazione di Santa Maria di Collemaggio voluta dal futuro Papa, il quale ebbe una visione onirica e in seguito a ciò fece costruire tale chiesa, ma alcuni sostengono che questo sogno premonitore celi il presunto incontro dei templari con il pio eremita, i quali, secondo alcune fonti, sono i veri finanziatori del progetto del luogo di culto che dovrebbe celare un segreto, forse il Graal?
Accanto a queste supposizioni vi sono fonti che attestano che Pietro Angelerio, dopo aver iniziato i lavori della costruzione di Santa Maria di Collemaggio e senza aver acquistato il terreno circostante, parte alla volta dell’abbazia di San Giovanni in Venere e dopo alcuni anni egli torna con il danaro sufficiente a poter compare il terreno dove oggi sorge la basilica di Collemaggio!
Appena divenuto Papa Celestino V, il 27 settembre del 1294, concede alcune indulgenze ai benefattori del monastero di Santo Spirito di Lanciano, che è denominato dell’Ordine Benedettino, ed è collocato nella Diocesi Teatina. Le indulgenze sono concesse per un quinquennio.  Questo luogo fu fondata appena prima della sua elezione, nel 1293, dall’Abate Onofrio di Comino dell’Ordine del Morrone, che acquistò il terreno da una certa Golata, moglie di Guglielmo del Conte, di Lanciano.
La tradizione vuole che oltre ai Romiti e alle Monache, questo luogo sia stato frequentato anche dall’eremita Pietro del Morrone, prima che diventasse Papa Celestino V. Anzi, allora, avrebbe compiuto anche dei miracoli risanando delle persone.
Si dice anche che questa chiesa ha ospitato la fuga del Santo Eremita, quando questi cercava di imbarcarsi, per le coste pugliese, poiché si deve pensare che esso sorge proprio a ridosso del tratturo L’Aquila Foggia, vicino a una fontana che oggi non esiste più ma che all’epoca era una tappa obbligata per chi percorreva queste strade.
Nel 1654, in forza di una Bolla del Papa Innocenzo X, il monastero di Santo Spirito di Lanciano viene soppresso. Al suo interno venne rinvenuto un reliquiario a teca in legno dorato, è lungo cm. 50 ed è alto cm 25, al cui interno vi sono custodite le reliquie del braccio di San Giovanni Eremita confessore, un frammento di un braccio di Santo Stefano e di un lembo del suo vestito; in posizione centrale vi sono: un frammento di costola di S. Pietro Celestino di circa cm 6, ed altro frammento di circa cm 5, un frammento di osso appartenuto a San Benedetto ed infine un frammento della testa di San Girolamo.
Questo reliquiario, nella parte posteriore, è sigillato da 3 sigilli di 3 vescovi. Inoltre in alcuni documenti rinvenuti di recente, si sostiene  che il Santo Padre, stava scappando dalle guardie del suo successore, e non si imbarcò in Puglia bensì sul litorale abruzzese a Vasto, feudo degli abati di San Giovanni in Venere.
Prima di essere arrestato dal suo predecessore, nominò vescovo, secondo ciò che ci riferisce Giovanni Pansa nella sua opera Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, il suo vice San Tomasso de Ocre, il quale alla morte di Celestino divenne abate della prestigiosa abbazia di San Giovanni in Venere per  incarico di  Bonifacio VIII.
Secondo Giovanni Pansa “ Si affermò da qualcuno dei biografi di Celestino V che l’astuto cardinale Gaetani, il quale gli succedette nella cattedra di S. Pietro, dopo averlo con destri raggiri indotto alla annunzia, l’avesse fatto imprigionare e poi uccidere per evitare uno scisma nella Chiesa, reputandosi in quel tempo che l’abdicazione del santo anacoreta, estortagli dalla frode, non fosse legale, né canonica. Ma quell’accusa di morte violenta, scagliata contro Bonifacio, si ritenne da molti in conto di leggende, propalata ad arte dei nemico di lui, poiché i contemporanei e testimoni di veduta non ne fanno parola” 2.
Sempre da Pansa si apprende che esistono tre quadri riproducenti la morte di Celestino V ad opera di soldati, forse del Papa, ed in uno si legge la didascalia che recita “Quando lu nipote de Papa Bonifacio andò al Confessore per lo ammazzare”.
Nel 1597 il M.R. Padre Abate Don Francesco d’Aielli, in una chiesa presso Sulmona tra le ossa del Beato Padre Roberto da Salle, sostiene vi fosse anche una scatola rotonda vi era un chiodo lungo mezzo palmo con pezzi di sangue congelato.
Questo reperto fu portato a Santa Maria di Collemaggio e fu infilato nella presunta ferita del Santo dal Morrone, esso combaciava perfettamente, secondo ciò che venne poi sostenuto da un esame sul cranio del Santo Papa, da un equipe di dottori di Roma, il 29 Agosto  1888 alle diciassette e trenta presso la Cappella dedicata a Celestino V nella Chiesa di Santa Maria di Collemaggio.
Alcuni affermano che a Salle, provincia di Pescara, vi sia in ostensione un chiodo racchiuso in una pisside e pare che  tale chiodo forse, sia stato conficcato nel cranio del beato Roberto da Salle ed esso sembra sia simile a quello che avrebbe ucciso Celestino V.





Note

1)  NICOLAI, Maria Concetta: “ La  Preghiera di Celestino eremita e Papa” Edizioni Menabò srl Giugno 2000, pag 45.
2) PANSA, Giovanni “ Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo” Arnaldo Forni Editori. Ristampa dell’edizione di Sulmona, 1924,finito di stampare nel Maggio 1981; pag. 250.