venerdì 3 luglio 2015

Atlantide e altri non-luoghi Alla ricerca del mito perduto

tratto da Il Giornale del 22 febbraio 2010

di Gianfranco de Turris

Il 26 dicembre 2004 sul fondo dell’Oceano indiano, a 200 km a Ovest di Sumatra, la Placca indiana all’improvviso scivolava rapidamente sotto la Placca birmana spingendola verso l’alto di cinque metri e spostando l’isola indonesiana verso Est di una ventina di metri. Il risultato di questo terremoto sottomarino di magnitudo 9,3 e di 8,5 gradi della Scala Richter e del successivo spostamento della massa d’acqua superiore, era un’onda anomala che si propagava alla velocità di 850 chilometri l’ora per tutto l’Oceano Indiano raggiungendo con uno tsunami dai dieci ai trenta metri di altezza a oriente le coste di Indonesia, Malaysia, Thailandia, Myanmar, Bangladesh, e ad occidente quelle di Sri Lanka, India e Maldive, sommergendo tutte le piccole isole che si trovava davanti. Coste devastate, isole sommerse, intere popolazioni scomparse su quelle più piccole, danni incalcolabili. I morti e i dispersi accertati hanno superato i trecentomila, anche se una cifra esatta non si saprà mai. Il maggior disastro dell’epoca moderna.
Se tutto questo è avvenuto nel XXI secolo, perché non potrebbe essere avvenuto anche 9mila anni prima di Platone che ci racconta nel Timeo e nel Crizia come nel corso di «una notte tremenda» terremoti e maremoti sommersero l’isola di Atlantide che sprofondò nell’oceano? Questo solo per dire che dal punto di vista «scientifico» la storia che ci racconta il filosofo greco può non essere considerata una fandonia agli occhi dei «moderni». Il fatto è che, esistito o meno nella realtà il regno di Atlantide, esso servì a Platone per lanciare nel tempo il suo mythos, la sua fabula, che contiene degli insegnamenti in positivo e in negativo: al tempo stesso la sua «utopia» e la sua «antiutopia», descrivendoci una società perfetta di discendenza divina che diventa arrogante ed «empia» nel momento in cui dimentica o perde, appunto, quella «scintilla divina» che aveva dentro di sé.
Un mito così affascinante che nell’arco di due millenni e mezzo è giunto sino a noi, un mito a cui molti hanno creduto e che si è andato arricchendo e ampliando a seconda del periodo storico in cui venne accolto. Di tutta questa affascinante storia ci parla Davide Bigalli, che insegna storia della filosofia all’Università di Milano ne Il mito della terra perduta (Bevivino, pagg. 226, euro 20) che segue passo passo il tema dalle origini ai nostri giorni.
Il professor Bigalli scrive dunque che Atlantide «appartiene al mondo del pensiero», è «un consapevole mythos, volto a delineare, in una remota antichità, modelli di civiltà, dove le costruzioni politiche, a misura che si distaccano dall’immagine ideale, corrono a catastrofe divenendo esemplari di una contro utopia». Nello stesso tempo, l’autore fa notare, credo per primo, come questo mito, quando su quella ideale/filosofica/simbolica prevale la parte della narrazione, del racconto, della elaborazione fantastica (del resto il termine greco mythos proprio questo vuol dire) «diventa una esemplare non-luogo, il regno di una alterità che non può rinchiudersi né venire raggiunta per entro i termini di realismo geografico. Diventa un altro mondo».
Ecco perché nel corso dei secoli ha appassionato anche esploratori, avventurieri, geografi, personaggi folli e bizzarri che ne sono andati concretamente alla ricerca tentando di localizzare Atlantide qui e la, in quasi tutte le parti del mondo. E perché il suo archetipo abbia dato vita ad altre «terre perdute» di cui sempre parla Bigalli: Mu e Lemuria, ad esempio, ma anche Agartha e Shamballah, forse anche l’Eldorado, e addirittura la fantastica teoria ottocentesca della Terra Cava.
Un libro denso, zeppo di riferimenti e di citazioni tratte dai testi più singolari e sconosciuti che ci dimostra come anche di miti viva il genere umano, ancorché sempre più dotto e scettico. È sufficiente che questo mito da pura idea filosofica esemplare sia trasformato in riferimento storico-geografico, come in effetti è avvenuto.


sabato 27 giugno 2015

INSEDIAMENTI EREMITICI NELLA TOSCANA MEDIEVALE

di Aldo Favini

La Toscana è stata uno dei luoghi d’Europa in cui maggiormente, e forse con uno specifico successo, le regioni metafisiche dell’eremitismo dei Padri si sono fuse con l’ambiente reale, diocesano e comunale. Attraverso lo studio degli insediamenti eremitici del medioevo toscano, così raramente trattati nella loro integrale complessità, emerge la profondità delle discussioni che si animarono attorno ad assunti filosofici di portata universale e i modi in cui essi determinarono scelte architettoniche e insediative specifiche.
Per approcciarsi ad una così vasta tematica, fertile di una quantità insospettabile di curiosità, Aldo Favini ha costituito un ampio archivio d’informazioni raccolte in molti anni di studio ed escursioni. Incrociati i dati e stabilite le tendenze, questo testo risulta la piattaforma ideale per qualsiasi futura interpretazione delle architetture eremitiche di Toscana.
     
tra gli argomenti trattati:
LA STORIA DEGLI INSEDIAMENTI EREMITICI TOSCANI
L'ARCHITETTURA DELLE CHIESE EREMITICHE
LA POSIZIONE, LA DEDICAZIONE, LA TOPONOMASTICA
DECADENZA E SOPPRESSIONII
REPERTORIO DEGLI EREMI SUDDIVISI PER DIOCESI
EREMITISMO OGGI
(...)

 

sabato 20 giugno 2015

MISTERI ANTICHI E MODERNI. INDAGINE SULLE SOCIETÁ SEGRETE

Ogni società segreta è una pallida famiglia di vendicatori. Quegli uomini sono stretti da infrangibile giuramento; i loro riti si direbbero il programma dello sterminio; ma la loro amicizia è tenera e soave. Guardateli in viso; scuri e smorti: ma parlate loro della patria, della libertà, della verità, e il loro volto si rasserena,ride d’una luce ineffabile.

Giovanni De Castro

Società segrete, sette, consorterie: cosa evocano in voi? Riuscite ad immaginare qualcosa che vada al di là dell’effetto facile, da film di serie B, a scavalcare la facile sfumatura horror? Se ci riuscite, o se volete riuscirci, se non volete insomma essere turisti che pensano solo a un selfie da brivido, se desiderate invece essere viaggiatori, persone che da un’esperienza desiderano un cambiamento, o perlomeno un arricchimento, questo libro è il treno che dovete prendere. I suoi scompartimenti si chiamano Cavalieri Templari, Carboneria, Beati Paoli, Scamiciati. Qualcuno di questi nomi forse vi dirà qualcosa, altri magari no. L’importante è sedersi, con la curiosità di chi vuole conoscere senza pregiudizi, lasciandovi trasportare dalla prosa di Michele Leone, che prima di voi ha affrontato questo viaggio e così bene lo sa raccontare.

Basterebbe già l’introduzione, che apre la porta nascosta in ogni parola italiana per arrivare all’antenato greco o latino. Una società segreta (da secretum, quindi da secernere, mettere da parte, separare) è un insieme di persone legate da un’idea o esperienza comune che agiscono separatamente dalla società civile comunemente intesa ed accettano nuovi membri solo ed esclusivamente attraverso riti o cerimonie di iniziazione o promesse solenni e giuramenti. A partire da questa definizione, volutamente generica, ma soprattutto priva di giudizio di valore (perché solo senza giudizio si dà la vera conoscenza), l’autore ricostruisce la storia di molte società segrete attraverso fonti storiche documentate, senza dedicarsi a quelle sette o società dedite a culti neo religiosi, satanici o di complotto, riscoprendone il significato originale.  Giovanni De Castro afferma infatti che “uno dei più ovvi sentimenti, ispiratori delle società segrete, è quello della vendetta, ma della buona e provvida vendetta, aliena dai rancori personali, assente ove si discute un interesse volgare, che vuol punire le istituzioni e non gli individui, colpire le idee e non gli uomini”.

Ora che vi siete messi comodi, vi basti sapere che la prima fermata si chiama Pitagora, e l’ultima, Carboneria. Se avrete gli occhi bene aperti, ma soprattutto la mente, potrete trovare in queste pagine moltissimi spunti di riflessione, che vi porterà a camminare in un corridoio pieno di porte socchiuse verso Storia, Tradizione e Iniziazione. Chissà quali e quanti altri viaggi avrete voglia di fare, dopo aver sfogliato l’ultima pagina.

Michele Leone
MISTERI ANTICHI E MODERNI. INDAGINE SULLE SOCIETÁ SEGRETE
Yume Edizioni 2015
Pagine 192
Euro 15,00





Notizie sull'autore
 
Michele Leone è un personaggio poliedrico che si autodefinisce curioso, ma allo stesso tempo ignorante, studioso scientifico, ma contemporaneamente ametodico. E neppure si proclama scrittore, ma un artigiano del pensiero, di un pensiero occulto e misterioso, capace di passare con destrezza da una forma all’altra, senza vincolarsi a nessuna, lasciandosi guidare dal sotterraneo fil rouge dell’esoterismo.
Laureato in Lettere e Filosofia presso l’università degli studi di Bari, Leone inizia il suo percorso con la poesia, suo primo grande e intramontabile amore:

Dervisci
ballo oscuri versetti
in vite altre
vissute altrove
da te
ch’aspetti
l’ultimo tramonto
con tre monete
davanti al mare

Poi si avvicina alla narrativa per curiosità di sperimentare e sperimentarsi: la sua giovane penna dà vita ai deliri, forme brevi, flussi di coscienza e di emozioni che spalancano finestre sull’ignoto, su quanto è  nascosto e che nel buio aspetta un traghettatore.
Dalla fine degli anni ’90, Leone ha indirizzato le sue ricerche prevalentemente verso la tradizione ermetica e la massoneria, diventandone un esperto conoscitore e divulgatore, grazie anche alla sua capacità di trasmettere passione e interesse. Chi è affascinato dall’ignoto, e desidera avvicinarsi, conoscere, troverà nelle parole di Michele Leone una guida capace di descriverne in modo affascinante ed invitante complessità e bellezza. Ne sono testimonianza alcuni dei suoi testi, come Il linguaggio simbolico dell’esoterismo e  Le Magie del simbolo. Dall’Anhk al tatuaggio per Mondi Velati Editore.
Recentemente ha iniziato ad affrontare tematiche legate all’alchimia spirituale, percorso che partendo dalla alchimia classica e passando da Jung permette di approfondire la conoscenza di se stessi e della propria interiorità.
La passione di Michele Leone non si ferma alle sole sue parole. La sua passione per la conoscenza lo ha portato a diventare responsabile della collana I Ritrovati per Mondi Velati Editore, vice direttore di redazione di Delta, Rassegna di Cultura Massonica, e da poco direttore della collana Misteri Antichi e Moderni di Yume Edizioni. Collabora, inoltre,  con le testate periodiche IlCervoBianco e Ouroboros.

lunedì 11 maggio 2015

Una riflessione sui testimoni di casi inspiegabili

di Vito Foschi

Sabato scorso guardavo Unexplained Files su Deejay Tv e fra i vari argomenti è capitato anche quello di un Ufo avvistato da un pilota militare; ciò mi ha fatto nascere una riflessione sui testimoni di casi cosiddetti inspiegabili. I testimoni singoli a volte vengono accusati di essere solo persone in cerca di notorietà o attenzione, mentre nel caso di una pluralità di testimoni si parla di isteria collettiva.
Indubbiamente esistono episodi di vere e proprie truffe o di persone disturbate o in cerca del famoso quarto d’ora di notorietà, però in altri non si capisce perché una persona dovrebbe inventarsi una storia incredibile e poi andarla a raccontare in giro. Facendo un lavoro da impiegato con annesso capoufficio, sono in qualche modo vincolato ad una certa disciplina e a vincoli “sociali”. Ciò accade in un normale luogo di lavoro e si immagina che in ambienti come quelli militari, medici o professionali in cui conta gerarchia e reputazione la situazione sia ancora più rigida. Andreste da un medico che va in giro a raccontare che vede gli Ufo? O un militare potrebbe continuare a fare carriera se va in tv a dire che vede i fantasmi? In breve, è un po’ difficile credere che tutti i testimoni di casi inspiegabili non siano credibili e lo facciano solo per notorietà. Tranne chi può ricavarci una professione, non pare che ci siano tutti questi vantaggi ad andare in tv a dire di essere testimoni di casi inspiegabili, specialmente per alcune persone. Si immagini un piccolo paese di provincia dove si conoscono tutti, quanto una persona possa venire etichettata negativamente, se denuncia di essere stato testimone di un qualche fenomeno inspiegabile. Certo, un individuo può fraintendere ciò che ha visto, ma non si può sempre dubitare della buona fede.

L’altra questione è l’isteria collettiva. Sicuramente un singolo immerso in una folla è soggetto alle influenze del gruppo, ma sembra difficile credere che queste influenze possano arrivare al punto che una persona possa vedere cose che non esistono. Questo dubbio viene ampliato dalla presenza di individui eterogenei e persino scettici come capitato a Fatima con il fenomeno del sole ballerino. Una folla omogenea è diversa da una eterogenea. Provo a spiegare. Una folla di tifosi è legata dall’interesse per quel particolare sport e per la propria squadra, e sicuramente un singolo in tale circostanze può subire una forte influenza. Diverso pare il caso di un gruppo di persone che per accidente assiste ad un fenomeno inspiegabile, o come nei fatti di Fatima quando si radunano sia chi vuole credere e sia chi sta lì proprio per smentire il fenomeno. Indubbiamente un gruppo di credenti che vuole vedere un miracolo può essere soggetto ad una influenza, ma risulta difficile credere che un semplice curioso venga così influenzato da vedere ciò che vedono gli altri.

giovedì 7 maggio 2015

La Termocamera e le Variazioni di Temperatura

In collaborazione con Hesperya

tratto da: http://www.hesperya.net/il-ghost-hunting/la-termocamera/


di Roberta Faliva

clicca per ingrandire.

La termo-camera è una particolare telecamera, sensibile alla radiazione infrarossa, capace di ottenere  immagini termografiche. A partire dalla radiazione rilevata si ottengono dunque delle mappe di temperatura delle superfici esposte spesso utilizzate a fini scientifici o anche militari. Questi strumenti consentono di misurare il valore di temperatura assoluto di ogni punto dell’immagine. L’immagine, infatti, è costruita su una matrice di un certo numero di pixel per un certo numero di righe. L’elettronica dello strumento “legge” velocemente il valore di energia immagazzinata da ogni singolo pixel e genera un’immagine, in bianco e nero o in falsi colori, dell’oggetto osservato.
Esistono numerose teorie che associano fenomeni paranormali a fenomeni termici, sottolineando come questi ultimi risultino sempre essere caratterizzati da un repentino abbassamento della temperatura nell’ambiente di indagine. Proprio perché il calore è energia, si può avvertire la diminuzione della temperatura poiché l’energia disponibile viene assorbita ed utilizzata dall’entità che fa manifestare il fenomeno paranormale stesso.
 


mercoledì 22 aprile 2015

Roba da matti

di Marcello Vicchio Non sembri strano che spesso il cercatore di Luce ritorni alla poesia, perché questa è forse il veicolo più potente di trasmissione del Messaggio. Quando gli uomini hanno scelto di indagare il sovra-umano, di narrare imprese tali da annichilire le loro piccole forze, di cantare le glorie celesti o la sapienza, spesso il linguaggio scelto è stato quello della poesia, il più simile alla "lingua degli uccelli". L’impareggiabile libertà creatrice contenuta nella parola ( In principio era il verbo.), fa sì che tutto l’universo materiale e spirituale, e ogni attività o momento dello spirito umano, possano rientrare nel dominio della poesia e in questa riverberino quelle immagini, simboli, allegorie capaci di impossessarsi della mente e del cuore di chi legge, ascolta e si ascolta, e condurlo laddove la potenza dell’espressione desideri. La comprensione piena, poi, della vera opera d’arte è legata strettamente al grado di sintonia interiore, culturale e intellettuale, uguale nella trama ma sempre diversa nei contenuti, che si instaura nel momento in cui il prodotto del genio creativo investe l’animo dello spettatore, con tutte le limitazioni sottintese. Limitazioni, sì, perché tra artista e osservatore deve crearsi un processo di osmosi continua (sono loro due gli unici attori del personalissimo "dramma" che scaturisce dal confronto) e non sempre chi osserva è capace di vedere. Del resto dramma deriva dal greco drama, che significa azione, partecipazione emotiva, e se capita di essere indifferenti o distratti alla voce della Natura e anche a quella delle Muse, le nostre vite saranno condannate a scorrere sui livelli elementari dell’essere, su piani paralleli rispetto alle Forme e senza mai intersecarsi con queste. Continueremo a dormire a occhi aperti, ciechi ai sottilissimi fili che si snodano da altri gradi di realtà e che i saggi, gli iniziati dell’antichità, qualche volta ci hanno indicato. Legati agli alberi maestri delle nostre navi, sordi al richiamo delle sirene, mai riusciremo ad afferrare altro che non sia il subito e l’adesso. "Accade" così che alcuni versi del Purgatorio dantesco, la cantica più squisitamente esoterica dell’opera perché simboleggia l’anima che sta ritrovando faticosamente la Luce dopo il travaglio infernale, improvvisamente lascino trasparire significati reconditi ma invisibili a uno sguardo superficiale, perfetti emblemi di quel "parlar sottile" del quale Dante è inimitabile maestro. Ingannato dal significato letterale di un paio di terzine, perché mai prima d’ora era scoccata in me l’alchemica fusione artista-osservatore alla quale accennavo prima, per difetto non certamente dell’artista, non avevo notato quel quid che costringe la mente a fare un altro piccolo passo nella comprensione dell’opera. e dell’Opera. "Tutto accade", soleva ripetere un grande Maestro, senza che siamo noi a scegliere. E ogni cosa accade quando deve accadere. Vediamo allora che cosa succede nel 3° canto del Purgatorio, tra i versi 33 e 39. Dante e Virgilio sono ai piedi del monte del Purgatorio, stanno cioè iniziando la scalata che porterà il Poeta, gradualmente, a raggiungere il Paradiso Terrestre ( la Gerusalemme Celeste). Dante vede sul terreno, dinnanzi a sé, solo la sua ombra e sussulta, temendo di essere stato abbandonato dal Maestro. Questi lo rimprovera e lo ammonisce a non essere diffidente, perché continuerà a essergli vicino. Il suo corpo è seppellito a Napoli, sulla via per Pozzuoli, per questo non proietta ombre, ma la sua anima è con lui, diafana e incorporea. Non è dato sapere come "accade" che le anime si incarnino nei corpi. Poi Virgilio s-vela: "Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via, che tiene una sustanza in tre persone. State contenti , umana gente al quia; ché, se possuto aveste veder tutto, mestier non era partorir Maria" Il significato letterale è evidente: è pazzo chi crede di poter giungere con la ragione a comprendere la Trinità e la consustanzialità, perciò è meglio che l’umanità si accontenti della prova testimoniata dalla nascita del Figlio. Spiegazione plausibilissima, canonica e quasi scontata. Però.però c’era qualcosa. Mi ricordavo di aver letto da qualche parte una definizione del Matto che mi aveva "instillato" molta curiosità e che, riportata alla terzina dantesca, apriva uno scenario del tutto nuovo. " La Via del Matto è la via del viaggiatore solitario in cammino verso l’iniziazione. Questo viaggiatore può anche studiare sotto la guida di uno o più maestri, ma cercherà in ogni maniera di conservare la propria identità. Dire che il Matto è sulla Via, equivale a dire che percorre la strada dell’esperienza. Quella del Matto è la via dello sviluppo dell’ego. Nel linguaggio esoterico l’ego è l’io; e questo io è una gocciolina delle Mente universale di Dio. E’ quella goccia di divinità che ha cercato l’esperienza attraverso il coinvolgimento nella materia. Questa minuscola particella viene calata nella materia affinché possa percepire se stessa, ossia acquisire esperienza nel regno della creazione divina." (Hedsel-L’iniziato). Il Matto, dunque, spogliato delle apparenze, è colui che percorre la via dell’iniziazione! Ed è colui che ha scelto la Via Umida, fatta di esperienze, di errori e rettificazioni continue. " L’altra , per grazia che da sì profonda fontana stilla, che mai creatura non pinse l’occhio infino a la prima onda" (Par. XX, 118-120) La figura del Matto ricorre in molte tradizioni ( nel Medio Evo era molto diffusa la Festa dei Pazzi, in seguito proibita dalla Chiesa) e si ripresenta, di tanto in tanto, nella letteratura e nell’arte con significati molto spesso occulti, basti ricordare i quadri di Hieronymus Bosch o La nave dei folli di Sebastian Brandt. Sotto il cappello a tre punte ( a simboleggiare corpo, spirito e anima; il fisico, l’eterico, l’astrale; il passato, il presente, il futuro, insomma una trinità), il Matto dei Tarocchi cammina, lo sguardo rivolto in alto ( magari inciampando come Talete, che poi doveva subire i cachinni - come dice un mio amico - della servetta tracia. lo tuo riso sia sanza cachinni), portando un bastone e un fagotto sulla spalla, a rappresentare il fardello delle sue follie visionarie, e un altro bastone in mano, sul quale spesso inciampa. Certo, la rettitudine spesso lo fa inciampare, perché non si possono chiedere compromessi all’anima di un Matto. La lince che gli addenta il polpaccio, simile alla lonza dantesca, animale dalla "gaietta pelle" chiazzata di Bianco e di Nero, non dà tregua al suo spirito inquieto, tormentandolo di continuo, sicché Oswald Wirth può legittimamente affermare : <<.Il saggio non si lascia ingannare dalle parole; invece di oggettivare esteriormente la negazione verbale dell’essere, cerca il Matto in se stesso, prendendo coscienza della ristretta personalità umana, che ha un posto tanto grande nelle nostre misere preoccupazioni.>>. Ben strano, dunque, questo Matto che, a ben vedere, dà l’impressione di essere più savio di molti altri. << Qualsiasi cosa dicano di me i mortali, >> scrive Erasmo da Rotterdam nell’ incipit dell’ Elogio della follia << .ecco qui la prova che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare gli Dei e gli uomini>>. E conclude << Ricordate però il detto greco : "spesso anche un pazzo parla a proposito">>. Se, dunque, il Matto è colui, e non altri, che percorre un proprio viatico iniziatico, egli spera davvero che la nostra ragione sia in grado di indagare la infinita via del mistero della Trinità, che poi è anche il mistero del corpo, dello spirito e dell’anima umana. Il suo cammino forse potrà rivelarsi alla fine infruttuoso, ma non sarà mai inutile perché l’importante è il viaggio in sé, con fardello e bastone in spalla: il Matto mercenario di se stesso. Abituati come siamo a dare alla ragione il freddo attributo della concatenazione di causa ed effetto, retaggio di una certa concezione materialistica della realtà, spesso dimentichiamo di tornare alle origini e indagare sul concetto originario del verbo reri, che ha il doppio significato di ‘credere e pensare’. Il vero Matto spera, crede, pensa e, appunto per questo, non delega ad altri il suo fagotto. E non delega né il fare, né l’essere, né il sentire, come Dante non ha affidato ad altri che a se stesso il travaglio della propria anima alla ricerca della Luce. L’umana gente può accontentarsi del quia.