sabato 15 luglio 2017

Oltre un secolo a fantasticare sulle fotografie degli Ufo

tratto da il Giornale del 23 giugno 2017

di Gianfranco de Turris

Le uniche "prove" dell'esistenza di creature aliene sono gli scatti: in un volume tutti gli avvistamenti dal 1883

C'è un famoso racconto di fantascienza di Katherine MacLean che Fruttero e Lucentini inserirono nella loro storica antologia Le meraviglie del possibile (1959) intitolato Le immagini non mentono e che racconta di come i terrestri cadono in un equivoco durante il primo contatto con gli alieni nel rispondere alla loro richiesta di aiuto dopo il loro atterraggio.

Le loro immagini inviate, infatti, erano vere ma loro non lo avevano capito.

È passato da un bel pezzo il tempo in cui si riteneva che foto e filmati fossero più veritieri delle testimonianze oculari: foto e film sono oggettivi, quel che si vede a occhio nudo è soggettivo e quindi equivocabile. Non è vero. Sin dagli inizi della storia della fotografia e del cinematografo è possibile truccare, l'importante è che il trucco non si veda e si creda tutto vero. Nei pionieristici film di Georges Méliès il trucco era palese, ne Il Signore degli Anelli o nei film dei supereroi e affini il trucco sembra vero, tanto per fare un confronto. Oggi è facilissimo, con i mezzi della moderna tecnologia elettronica, con appositi programmi come Photoshop, ad esempio, creare clamorosi falsi ritenuti veritieri, quasi più veri del vero, e difficili da scoprire: si pensi solo a quelli apparsi, però subito smascherati, dopo l'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001.

E il «fenomeno Ufo» è un fenomeno eminentemente visivo. Certo, innumerevoli testimonianze, un certo numero di tracce e di reperti attribuibili, ma soprattutto un numero sterminato di fotografie e filmati, e non disponendo di un Ufo integro o a pezzi a disposizione, o di loro piloti vivi o morti, le immagini sono la «prova regina». Sicché, partendo da questo presupposto venne in mente a me e a Sebastiano Fusco di mettere su un libro che presentasse in sequenza logico-cronologica e con relativo commento critico le più note, famose e controverse fotografie su questo enigma dei tempi moderni. Si intitolava Obiettivo sugli Ufo: Fotostoria dei dischi volanti, lo pubblicò le Edizioni Mediterranee nel 1975, con una seconda edizione riveduta e ampliata nel 1978: fu il primo libro in Italia e il secondo al mondo di questo genere (cinque anni prima era apparso un libro spagnolo ma di assai più limitata prospettiva, Platillos volantes ante la camara di Antonio Ribera), nonché il primo che pubblicammo a doppia firma, ormai reperto storico e introvabile, tanto che nemmeno il sottoscritto è riuscito a rintracciare la propria copia! L'introduzione era dell'amico Roberto Pinotti, uno dei fondatori del Cun, il Centro ufologico nazionale, e già allora uno dei maggiori esperti italiani.

Dopo 42 anni le parti s'invertono. Roberto è oggi il massimo esperto italiano e internazionale di Ufo con alle spalle un numero non calcolabile di libri, noi abbiamo preso strade diverse e ci siamo occupati di molti altri argomenti, tutti comunque eterodossi (qualcuno direbbe stravaganti), letterari o saggistici, ma lui mi ha richiamato in servizio per questa sua ultima fatica, Ufo tra occhio e obiettivo. E non potevo certo esimermi dal farlo, memore dei nostri antichi interessi e della vecchia amicizia. In fondo, quando 50 anni fa il Cun nacque e decise di indire il primo congresso ufologico in Italia, il 24 e 25 giugno 1967 a Riccione, fra i giornalisti presenti all'evento c'ero anch'io, insieme al compianto amico Cesare Falessi.

Obiettivo sugli Ufo conteneva 282 immagini. In seguito, fra il 1976 e il 1998, sono apparsi soltanto tre altri volumi fotografici, e tutti tedeschi (uno è stato pubblicato anche in italiano, Il segreto degli Ufo di Adolf Schneider e Hubert Malthaner, mentre i due di Michael Hesemann, Geheimsache Ufo e Die Kontakte sono inediti nel nostro Paese), con circa 150 immagini ognuno. Rispetto al nostro, questo libro di Roberto Pinotti ne contiene quasi il doppio, più di 500. Nel nostro libro prendevamo in considerazione un periodo di 93 anni, dal 1883 al 1976, questo si riferisce a 134 anni, dal 1883 al 2017.


In Ufo tra occhio e obiettivo Roberto Pinotti si districa in questo ginepraio basandosi sulla propria esperienza ed acume critico e con il suo catalogo dimostra come questo fenomeno persista dal 1947 (l'avvistamento Arnold) e continua ad essere regolarmente documentato da 70 anni. E da storico del fenomeno offre a chi ci crede e a chi non ci crede materiale visivo a iosa su cui ragionare, discutere, speculare e, perché no?, anche fantasticare, aspetto ancora non proibito dalle Autorità Costituite. Con l'aria che tira potrebbe anche succedere che la Commissione europea decida di classificare gli Ufo come balla, bufale, disinformazione bella e buona, una di quelle fake news dei giornalisti e dei politici conformisti e ignoranti insomma; e quindi di proibirne la diffusione di notizie e immagini in Rete...

E infatti c'è chi crede che gli Ufo giungano dallo spazio e chi magari dal centro della Terra, o che siano più banalmente armi segrete americane o russe o di un IV Reich in attesa di rivincita. V'è chi crede che provengano da altre dimensioni accanto alla nostra o da un tempo diverso, passato o futuro.

Ma basterebbe che una sola di queste 500 foto presentate da Roberto Pinotti (così come una sola delle 282 di 42 anni fa) fosse incontrovertibilmente vera e non raffigurasse un evento astronomico o un pallone sonda o simili che gli «oggetti volanti non identificati» diverrebbero realtà, ancorché per adesso ancora inspiegabile e soprattutto sempre visiva.

Insomma, siamo tuttora a confrontarci con quelle «cose che si vedono in cielo» come diceva Carl Gustav Jung nel 1958, quel «mito moderno» che abbiamo collocato sopra le nostre teste. E che fotografiamo...

domenica 9 luglio 2017

Le dodici fatiche d’Eracle

in collaborazione con la rivista Lettera e Spirito:
http://acpardes.com/letteraespirito/le-dodici-fatiche-deracle/

Apollodoro


Eracle (chiamato dai latini Hercules, Ercole) è un personaggio della mitologia greca conosciuto per la straordinaria forza, sulle cui origini vi sono tradizioni differenti. Secondo la versione più diffusa del mito (che si riassume nelle tradizioni tebane), Eracle era figlio di Zeus e di Alcmena, posseduta dal dio nell’aspetto del marito Anfitrione, e venne educato a Tebe in ogni disciplina da uno specialista mitico: da Eurito nell’arco, da Autolico nella lotta, nelle armi da Castore. L’episo­dio in cui Eracle uccise Lino, suo insegnante di scrittura e musica, lascia intravedere l’aspetto selvaggio insito della sua natura e come questo eroe rappresenti l’uomo combattuto tra virtù e vizio. Mandato per punizione sul Citerone a custodire le greggi, diede a 18 anni prova della sua forza uccidendo un leone che terrorizzava il paese governato da Tespio, padre di 50 figlie, con le quali Eracle giacque, generando un figlio da ciascuna.

Per ricompensa della guerra vinta, Eracle ottenne in moglie da Creonte re di Tebe la figlia Megara, dalla quale ebbe tre figli (o più secondo altre versioni). Quando Euristeo re di Tirinto (o Micene) lo chiamò al suo servizio, Eracle uccise i propri figli in un accesso d’ira causatogli dalla dea Era, sposa gelosa di Zeus.

Le dodici fatiche, compiute da Eracle al servizio d’Euristeo per la durata di dodici anni, gli furono imposte dall’oracolo di Delfi come espiazione per l’uccisione dei propri figli e ottenere l’immor­talità. Le fatiche rappresentano le prove dell’anima che si libera progressivamente dai vizi, vince il destino e conquista l’eternità con la forza della virtù. Eracle è quindi simbolo della forza virile che va messa in atto in una via di purificazione per sopraffare i vizi e far trionfare la virtù[1].

Di seguito proponiamo il celebre racconto d’Apollodoro delle dodici fatiche d’Eracle.



Dopo avere udito queste parole Eracle si recò a Tirinto per sottoporsi ai comandi di Euri­steo. Come prima impresa costui gli ordinò di portargli la pelle del leone nemeo, che era una belva invulnerabile figlia di Tifone. Partito alla volta del leone, giunse a Cleonea, dove venne ospitato da un pover uomo chiamato Molorco. Il giorno seguente, quando il suo ospite volle of­frire un sacrificio, Eracle gli raccomandò di attendere trenta giorni: allora, se fosse ritornato salvo dalla caccia, si sarebbe fatto un sacrificio a Zeus Salvatore, mentre se fosse morto avrebbe dovuto versargli libagioni come si fa con un eroe.
Giunto a Nemea andò alla ricerca del leone e dapprima gli scagliò una freccia; quando però comprese che era invulnerabile afferrò la clava e iniziò a incalzarlo. Il leone si rifugiò in una spelonca a due uscite; allora Eracle ne sbarrò una e attraverso l’altra raggiunse l’animale: gli circondò il collo con un braccio e strinse fino a soffocarlo. Poi lo caricò sulle spalle e lo portò a Cleonea, dove trovò Molorco che nell’ultimo dei giorni stabiliti stava per offrirgli libagioni come se fosse morto; così, dopo avere sacrificato a Zeus Salvatore, portò il leone a Micene.

Euristeo rimase sbigottito dal suo valore e per il futuro gli vietò di entrare in città, imponen­dogli di esibire il frutto delle sue imprese dall’esterno delle mura. Dicono anche che, terroriz­zato, avesse fatto costruire una giara di bronzo per nascondersi sotto terra e avesse imposto ad Eracle le fatiche attraverso l’araldo Copreo, figlio di Pelope di Elide, il quale si era rifugiato a Micene per avere ucciso Ifito e aveva preso dimora in quel luogo dopo essere stato purificato da Euristeo.

La seconda fatica che il re gli impose fu di uccidere l’Idra di Lerna; questo mostro era cre­sciuto nella palude di Lerna e si aggirava per la pianura massacrando le mandrie e devastando la regione. L’Idra aveva un corpo immenso e nove teste: otto erano mortali, quella di mezzo im-mortale. Ebbene, Eracle salì sul carro (Iolao ne teneva le redini) e giunse a Lerna; scovò l’Idra sopra una collinetta nei pressi delle Sorgenti di Amimone, dove essa aveva la tana. Bersagliandola con frecce infuocate la snidò, e mentre quella usciva la ghermì e la tenne stretta; l’Idra però si avvinghiò a uno dei suoi piedi. Eracle la percuoteva sulle teste con la clava ma non riusciva ad averne la meglio, perché ogni volta che una testa veniva frantumata ne crescevano due; inoltre in aiuto all’Idra era accorso un enorme granchio che gli aveva attanagliato un piede. Perciò Eracle lo uccise e a sua volta chiamò in soccorso Iolao: questi appiccò il fuoco a una par­te della selva vicina e, bruciando con torce le teste a mano a mano che crescevano, impedì che rinascessero. In questo modo Eracle riuscì a eliminare le teste che rispuntavano; infine tagliò la testa immortale, la seppellì e vi pose sopra un pesante macigno, lungo la strada che attraverso Lerna porta a Eleunte. Poi squarciò il corpo dell’Idra e immerse le frecce nella sua bile. Tuttavia Euristeo rifiutò di includere questa prova tra le dieci perché Eracle non aveva sopraffatto l’Idra da solo ma con l’aiuto di Iolao.

La terza fatica che il re gli impose fu di condurre a Micene, ancora viva, la cerva di Cerinea. Questa cerva si trovava a Enoe, aveva corna d’oro ed era consacrata ad Artemide. Poiché Eracle non voleva né abbatterla né ferirla, la inseguì per un intero anno; quando infine l’animale, spos­sato dalla caccia, si rifugiò sul monte chiamato Artemisio e lì, presso il fiume Ladone, Eracle lo ferì con una freccia nel momento in cui stava per guadare il corso d’acqua; così lo catturò, se lo caricò in spalla e attraversò l’Arcadia. Ma Artemide e Apollo gli sbarrarono il passo, e la dea cercò di togliergli la cerva rimproverandolo perché aveva abbattuto il suo animale sacro: ma Eracle rispose che aveva agito per necessità e attribuì la colpa a Euristeo. In tal modo placò l’ira della dea e portò l’animale ancora vivente a Euristeo.

Come quarta fatica il re gli impose di portargli vivo il cinghiale di Erimanto. Questa belva devastava Psofi scendendo dal monte che chiamano Erimanto. Ebbene, mentre Eracle stava attraversando Foloe fu ospitato dal centauro Folo, figlio di Sileno e di una ninfa melia. Costui offrì a Eracle carni cotte, mentre lui stesso le divorava crude; quando poi Eracle gli chiese del vino, rispose che temeva di aprire la giara che possedeva in comune con gli altri Centauri. Eracle gli fece coraggio e così Folo la dissigillò, ma poco dopo, attirati dall’odore, presso la grotta Folo accorsero i Centauri armati di pietre e bastoni. Eracle volse in fuga, bersagliandoli con delle torce, i primi che osarono penetrarvi, Anchio e Agrio, e inseguì gli altri a colpi di freccia sino al Malea.

Di lì essi si rifugiarono presso Chirone, che era stato scacciato dai Lapiti, e dal monte Pelio si era trasferito presso il Malea. Mentre i Centauri erano raggruppati attorno a lui, Eracle scagliò contro di loro una freccia, che dopo avere trapassato il braccio di Elato si conficcò nel ginocchio di Chirone. Eracle addolorato si precipitò a estrarre il dardo e applicò sulla ferita un farmaco che gli aveva porto Chirone. Ma la piaga era inguaribile: allora Chirone si ritirò nel suo antro dove fu preso dal desiderio di morire, ma non poteva poiché era immortale. Prometeo allora offrì a Zeus di scambiare il suo destino con quello di Chirone, che cedendo a lui la propria immortalità poté finalmente morire.

Gli altri Centauri fuggirono disperdendosi: alcuni giunsero al monte Malea; Eurizione a Foloe; Nesso al fiume Eveno. Poseidone diede asilo agli altri celandoli in una montagna presso Eleusi. Quanto a Folo, dopo avere estratto una freccia dal corpo di un morto, si meravigliò che un oggetto così piccolo avesse ucciso tali nemici: ma essa, sfuggitagli di mano, lo punse a un piede e lo uccise all’istante. Quando Eracle fece ritorno a Foloe e vide Folo morto, lo seppellì e partì alla ricerca del cinghiale; gridando lo stanò da una macchia e lo inseguì sino a sfinirlo nella neve alta, lo intrappolò e lo condusse a Micene.

La quinta fatica che Euristeo gli impose fu di rimuovere in un solo giorno il fimo delle man­drie di Augia. Augia era il re di Elide, figlio secondo alcuni di Elio, secondo altri di Poseidone, oppure (secondo altri ancora) di Forbo, e possedeva una grande quantità di bestiame. Eracle si recò presso di lui e, senza nulla rivelargli degli ordini di Euristeo, si offrì di rimuovere il fimo in un solo giorno purché il re gli donasse la decima parte delle mandrie. Augia, pur essendo incre­dulo, accettò; allora Eracle prese come testimone Fileo, figlio di Augia, quindi aprì una breccia nelle fondamenta della stalla e vi fece scorrere le acque mescolate dei fiumi Alfeo e Peneo, dei quali aveva deviato il corso, avendo prima creato un’altra apertura perché l’acqua vi defluisse. Quando Augia venne a sapere che quest’impresa era stata compiuta per ordine di Euristeo, ri­fiutò di pagare la ricompensa e aggiunse inoltre di non avere mai promesso alcun premio, di­chiarandosi anzi pronto ad affrontare un processo su questo argomento. Quando i giudici si fu­rono riuniti, Fileo venne convocato da Eracle e testimoniò contro suo padre, ammettendo che aveva promesso una ricompensa; allora, prima che la sentenza fosse emessa, Augia adirato bandì Eracle e Fileo dall’Elide.

Fileo si trasferì a Dulichio, dove prese dimora; Eracle invece andò a Oleno presso Dessa­meno e lo trovò in procinto di concedere in moglie, contro la propria volontà, la figlia Mnesi­mache al centauro Eurizione. Chiamato in soccorso dall’amico, Eracle, quando Eurizione si pre­sentò per condurre via la sposa, lo uccise. Euristeo però non volle computare tra le dieci fatiche neppure questa, accampando il pretesto che era stata compiuta dietro compenso.

Come sesta fatica gli impose di scacciare gli uccelli stinfalidi. Presso Stinfalo, una città del­l’Arcadia, si apriva infatti un lago chiamato Stinfalo, ombreggiato da una fitta selva. Presso questo lago si era rifugiato un numero sterminato di uccelli, che temevano di diventare preda dei lupi. Eracle non sapeva come fare per scacciare gli uccelli da quel bosco, quand’ecco che Atena gli donò dei crotali di bronzo che aveva ricevuto da Efesto. Percuotendoli dalla cima di un monte che sovrastava il lago spaventò gli uccelli, i quali non riuscendo a sopportare il frastuono volarono via terrorizzati e in questo modo Eracle poté abbatterli con l’arco.

La settima fatica che Euristeo gli impose fu di portargli il toro di Creta, che (secondo Acusi-lao) era lo stesso che aveva trasportato per mare Europa a Zeus; altri invece sostengono che si trattava di quello che Poseidone aveva fatto uscire dalle acque quando Minosse aveva promesso di sacrificargli ciò che fosse apparso dal mare: ma si dice che davanti alla bellezza del toro lo mandò libero tra le mandrie e a Poseidone offrì un altro sacrificio; perciò il dio si adirò e rese selvatico il toro. Quando Eracle giunse a Creta per catturarlo, Minosse rispose alla sua richiesta di aiuto dicendo che avrebbe dovuto affrontarlo e domarlo da solo; allora Eracle lo catturò e lo condusse da Euristeo, e, dopo averglielo mostrato, lo lasciò libero. E il toro, dopo avere vagato per Sparta e per tutta l’Arcadia, attraversò l’Istmo e giunse sino a Maratona, in Attica, dove tor­mentava gli abitanti.

Come ottava fatica il re gli comandò di portare a Micene le cavalle del tracio Diomede: co-stui, che era figlio di Ares e Cirene, regnava in Tracia sul bellicosissimo popolo dei Bistoni e possedeva cavalle antropofaghe. Ebbene, dopo avere raggiunto per nave quella regione assieme a un gruppo di volontari, Eracle sopraffece i guardiani che custodivano i recinti delle cavalle e le condusse sino al mare. Quando i Bistoni accorsero in armi, egli consegnò le cavalle ad Abdero perché le custodisse; costui, un figlio di Ermes nato a Oponte in Locride, era il giovane amante di Eracle: ma le cavalle lo uccisero facendolo a brani.

Eracle affrontò i Bistoni e uccise Diomede, costringendo gli altri alla fuga; poi fondò la città di Abdera presso la tomba del defunto Abdero, condusse le cavalle da Euristeo e gliele conse­gnò. Ma Euristeo le lasciò libere ed esse arrivarono sino al monte chiamato Olimpo, dove fu­rono sbranate dalle bestie feroci.

La nona fatica che Euristeo impose a Eracle fu di portargli la cintura di Ippolita, la regina delle Amazzoni che abitavano presso il fiume Termodonte: un popolo possente in guerra. Esse erano dedite ad attività guerriere e se mai si univano a un uomo e davano alla luce un figlio alle­vavano solo le femmine, alle quali comprimevano il seno destro perché non fossero impacciate nel lanciare il giavellotto, mentre lasciavano crescere quello sinistro per l’allattamento. Ippolita, dunque, possedeva la cintura di Ares, emblema del potere che esercitava su tutte.

Eracle fu inviato alla conquista di questa cintura perché la figlia di Euristeo, Admeta, deside­rava possederla; così egli, dopo avere arruolato dei volontari, con una sola nave si mise in mare. Giunse quindi all’isola di Paro, in cui avevano dimora i figli di Minosse: Eurimedonte, Crise, Nefalione e Filolao. Accadde però che due dei naviganti, che erano sbarcati, fossero assassinati dai figli di Minosse. Eracle, sdegnato da questo, subito li uccise; poi cinse d’assedio gli altri iso­lani finché essi gli inviarono ambasciatori con la proposta che in cambio dei morti egli condu­cesse con sé due persone a sua scelta. Allora Eracle rinunciò all’assedio e dopo avere scelto Alceo e Stenelo, i due figli di Androgeo, figlio di Minosse, giunse in Misia presso Lico, figlio di Dascilo, dal quale fu ospitato. Quando Lico fu assalito dal re dei Bebrici, Eracle venne in suo aiuto e uccise molti nemici, tra i quali anche il re Migdone, fratello di Amico; così, dopo avere confiscato una larga parte del territorio dei Bebrici, la consegnò a Lico, che chiamò tutta quella regione Eraclea.

Infine approdò nel porto di Temiscira, dove ricevette la visita di Ippolita, che gli chiese la ragione del suo arrivo e promise di consegnargli la cintura. Ma Era assunse l’aspetto di un’a­mazzone e si diede a circolare tra la folla dicendo che gli stranieri che erano arrivati stavano rapendo la regina. Allora esse presero le armi e corsero alla nave sui loro cavalli. Quando Eracle le vide giungere armate, credette si trattasse di un tradimento: perciò uccise Ippolita e la spogliò della cintura; poi tenne a bada le altre e salpò alla volta di Troia.

In quell’epoca accadeva che la città soffrisse a causa dell’ira di Apollo. Infatti Apollo e Po­seidone, che volevano mettere alla prova l’arroganza di Laomedonte, avevano assunto sem­bianze umane e promesso di edificare le mura di Pergamo in cambio di un compenso; quando però ebbero completato l’opera il re rifiutò di pagarli. Per questo motivo Apollo inviò una pesti­lenza e Poseidone un mostro marino che usciva dal riflusso della marea e rapiva gli uomini nella pianura. Gli oracoli vaticinarono che le sciagure avrebbero avuto termine se Laomedonte avesse offerto in pasto al mostro la figlia Esione; perciò egli la espose, legata alle rocce che sorgevano sulla riva del mare. Vedendola così esposta Eracle promise di salvarla, a condizione che Laome­donte gli cedesse i cavalli che aveva ricevuto in dono da Zeus come risarcimento per il ratto di Ganimede. Laomedonte promise e così Eracle uccise il mostro e salvò Esione; ma il re rifiutò di consegnare il compenso pattuito e pertanto Eracle salpò minacciando di muovere guerra contro Troia.

Poi raggiunse Eno, dove fu ospitato da Poltide. Mentre stava partendo, sulla costa di Eno uccise con un colpo di freccia Sarpedone, figlio di Poseidone e fratello di Poltide, che era un uomo violento. Giunto a Taso, soggiogò i Traci che la popolavano e consegnò l’isola ai figli di Androgeo perché la abitassero. Partito da Taso raggiunse Torone, dove uccise in una gara di lot­ta Poligono e Telegono, figli di Proteo che era figlio di Poseidone, i quali l’avevano sfidato. Poi portò la cintura a Micene e la consegnò a Euristeo.

Come decima fatica gli fu imposto di portare da Erizia le mandrie di Gerione. Erizia era un’i­sola presso l’Oceano che ora è chiamata Gades; in essa abitava Gerione, figlio di Crisaore e di Calliroe, figlia di Oceano. Egli aveva un corpo triplice: sino all’altezza del ventre era unico, ma a partire dai fianchi e dalle cosce si suddivideva in tre busti di uomo. Gerione possedeva delle giovenche rosse, di cui era mandriano Eurizione, custodite dal cane Orto, che aveva due teste ed era nato da Echidna e Tifone.

Eracle dunque attraversò l’Europa alla volta delle mandrie di Gerione, uccidendo molti ani­mali selvaggi, e s’inoltrò in Libia; giunto a Tartesso innalzò come segno del suo passaggio due colonne, una di fronte all’altra, ai confini tra Europa e Libia. Lungo il percorso fu arso dai raggi di Elio e tese l’arco contro il dio: questi allora, ammirato per il suo valore, gli diede una coppa d’oro sulla quale Eracle attraversò l’Oceano. Giunto a Erizia si accampò sopra il monte Abante. Il cane si avvide di lui e lo assalì, ma Eracle lo abbatté con la clava e uccise poi anche il bovaro Eurizione che era accorso in aiuto al cane. Allora Menete, che pascolava in quel luogo le man­drie di Ade, riferì l’accaduto a Gerione, il quale raggiunse Eracle mentre stava traghettando i buoi presso il fiume Antemo e venne a battaglia con lui, ma morì trafitto da una freccia. Eracle imbarcò la mandria sulla coppa e dopo la traversata sino a Tartesso la restituì a Elio.

Dopo avere percorso l’Abderia, giunse in Liguria, dove Ialebione e Dercino, figli di Poseidone, cercarono di rubargli la mandria, ma Eracle li uccise e proseguì il suo viaggio attra­verso la Tirrenia[2]. A Reggio un toro imbizzarrito si gettò in mare e giunse a nuoto fino in Sicilia; dopo avere attraversato la regione vicina [che da lui fu chiamata Italia (i Tirreni infatti chiamano ίταλόζ il toro)], arrivò alla pianura di Erice, un figlio di Poseidone che regnava sugli Elimi. Costui aggregò il toro alle proprie mandrie. Allora Eracle affidò gli altri buoi a Efesto e si pose alla sua ricerca; quando infine lo trovò tra le mandrie di Erice, questi affermò che non l’avrebbe restituito se non fosse stato sconfitto nella lotta: così l’eroe lo atterrò tre volte fino a ucciderlo e dopo avere unito il toro al resto della mandria la condusse sulle rive del mare Ionio. Ma quando Eracle giunse all’insenatura di quel mare, Era aizzò un tafano contro i buoi cosicché le bestie si dispersero tra le falde dei monti di Tracia; Eracle le inseguì e riuscì a catturarne alcune, che condusse fino all’Ellesponto, mentre le altre, lasciate libere, s’inselvatichirono. Dopo avere ra­dunato il bestiame con grande fatica, Eracle incolpò dell’accaduto il fiume Strimone e riempì di pietre il suo letto tanto da renderlo inaccessibile alle imbarcazioni, mentre prima era navigabile; infine consegnò le bestie a Euristeo che le sacrificò a Era.

Le fatiche furono compiute nello spazio di otto anni e un mese; tuttavia Euristeo non volle riconoscere quelle del bestiame di Augia e dell’Idra e gli impose come undicesima fatica di por­targli i pomi d’oro delle Esperidi. Essi non si trovavano (come alcuni hanno detto) in Libia, ma sull’Atlante tra gli Iperborei, ed erano i doni che Gea aveva fatto a Zeus quando aveva sposato Era: li custodiva un drago immortale, figlio di Tifone ed Echidna, che aveva cento teste e sapeva parlare con voci svariate. Assieme a lui custodivano i pomi le Esperidi: Egle, Erizia, Esperia e Aretusa. Eracle dunque lungo il suo cammino giunse al fiume Echedoro, dove Cicno, figlio di Ares e Pirene, lo sfidò a duello: fu Ares, che lo difendeva, a sollecitare la sfida, ma un fulmine caduto fra i combattenti fece cessare lo scontro.

Poi Eracle percorse a piedi l’Illiria e si affrettò a raggiungere presso il fiume Eridano le ninfe figlie di Zeus e Temi, le quali gli rivelarono il nascondiglio di Nereo; così Eracle lo sorprese addormentato e lo legò benché quello assumesse forme diverse, e si rifiutò di liberarlo prima che gli rivelasse dove si trovavano i pomi e le Esperidi. Seguendo le sue informazioni percorse la Libia, dove allora regnava Anteo, figlio di Poseidone, che costringeva gli stranieri a lottare con lui e li uccideva. Anche Eracle fu obbligato a misurarsi con lui e avendolo sollevato a mezz’aria stretto fra le braccia lo stritolò e lo uccise: accadeva infatti che Anteo diventasse più forte ogni volta che toccava terra, e questo è il motivo per cui alcuni lo dissero figlio di Gea.

Dopo la Libia attraversò l’Egitto, dove regnava Busiride, che era nato da Poseidone e Lisia­nassa, figlia di Epafo. Egli aveva l’abitudine di sacrificare gli stranieri sopra l’altare di Zeus in obbedienza a un oracolo: infatti quando una carestia novennale s’abbatté sull’Egitto, giunse da Cipro Frasio, un esperto indovino, il quale disse che la carestia sarebbe cessata se ogni anno essi avessero sacrificato a Zeus uno straniero. Per primo Busiride sacrificò l’indovino; poi continuò con gli stranieri che sopraggiungevano. Eracle dunque fu catturato e trascinato presso l’altare, ma spezzò i legami e uccise Busiride insieme a suo figlio Anfidamante.

Attraversando l’Asia giunse poi a Termidre, il porto di Lindo. Qui sciolse dal carro di un bovaro uno dei due tori, lo sacrificò e si mise a banchettare. Il bovaro non era in grado di difendersi; perciò si rifugiò sulla cima di un monte e lo maledisse. Ecco il motivo per cui anche oggi i Lindi, quando sacrificano a Eracle, lo fanno con maledizioni.

Attraversando l’Arabia uccise Emazione, figlio di Titono; poi lungo il percorso tra la Libia e il mare esterno ricevette da Elio la coppa. Dopo essere passato nel continente antistante, sul Caucaso trafisse l’aquila, figlia di Echidna e Tifone, che rodeva il fegato di Prometeo. Così libe­rò Prometeo e scelse come propria catena una corona d’olivo mentre a Zeus offrì come risar­cimento Chirone, che accettò di morire benché fosse immortale.

Prometeo aveva ammonito Eracle di non cogliere lui stesso i pomi ma di inviare in sua vece Atlante, dopo avere preso sulle proprie spalle il peso della sfera celeste; ed Eracle, quando giun­se presso Atlante nella terra degli Iperborei, seguì il consiglio e scambiò il ruolo con Atlante. Questi allora colse dalle Esperidi tre pomi e ritornò da Eracle, ma non era più disposto a rias­sumere sulle spalle il cielo e disse che avrebbe portato lui stesso i pomi a Euristeo e pretese che Eracle reggesse la volta celeste al posto suo. Eracle promise di farlo, ma la restituì ad Atlante con un’astuzia. Seguendo il suggerimento di Prometeo, pregò Atlante di sostenere il finché si fosse avvolto una benda attorno al capo. A queste parole Atlante depose a terra le mele e riprese sulle spalle la sfera celeste: così Eracle le raccolse e se ne andò. Altri tuttavia dicono che Eracle non ebbe i pomi da Atlante, ma che li colse egli stesso dopo avere ucciso il serpente che li cu­stodiva. In tal modo portò le mele a Euristeo e gliele consegnò: ma questi, dopo averle avute, le donò a Eracle, dal quale le ebbe poi Atena, che le riportò indietro: non era lecito, infatti, che esse stessero altrove.

Come dodicesima fatica gli fu comandato di portare Cerbero dall’Ade. Questi aveva tre teste di cane, una coda di drago e sul dorso teste di serpenti di tutte le specie. Mentre dunque era sulla via per andarlo a prendere, Eracle si recò a Eleusi presso Eumolpo con l’intenzione di essere ini­ziato ai misteri. In quell’epoca però non era consentito che uno straniero venisse iniziato; allora egli cercò di avere accesso al rito facendosi adottare da Pilio, ma non poteva ancora assistere ai misteri in quanto non era stato purificato per l’uccisione dei Centauri; perciò fu purificato da Eumolpo e allora venne iniziato. Giunto quindi al Tenaro, in Laconia, dove si trova l’imbocca­tura dell’Ade, vi entrò.

Quando le ombre dei morti lo videro si diedero alla fuga, ad eccezione di Meleagro e della gorgone Medusa; contro la Gorgone come se fosse viva Eracle snudò la spada, ma da Ermes apprese che si trattava soltanto di un vano fantasma. Arrivato accanto alle porte dell’Ade incon­trò Teseo e Piritoo, che aveva osato corteggiare Persefone e per questo era stato incatenato. Ve­dendo Eracle essi gli tesero le mani sperando di essere restituiti alla vita grazie alla sua forza. Egli afferrò Teseo per le mani e lo fece alzare, ma mentre cercava di sollevare Piritoo la terra tremò, cosicché dovette lasciarlo; poi fece rotolare via anche la pietra di Ascalafo. E poiché vo­leva procurare alle anime del sangue sgozzò una delle giovenche di Ade; allora Menete, custode delle mandrie e figlio di Ceutonimo, sfidò Eracle nella lotta, ma l’eroe lo afferrò per la vita e gli stritolò i fianchi, fino a che, per richiesta di Persefone, lo lasciò libero. Eracle allora chiese Cer­bero a Plutone, e Plutone volle che se ne impadronisse senza usare le armi che portava; egli, di­feso solo dalla corazza e dalla pelle di leone, lo scovò presso le porte dell’Acheronte, lo afferrò con le mani attorno alla testa e non smise di stringerlo e di soffocarlo finché l’ebbe domato[3], benché fosse morso dal drago che quello aveva per coda. Poi lo prese e se ne andò risalendo da Trezene; quanto ad Ascalafo, Demetra lo trasformò in allocco. Eracle, dopo avere mostrato Cer­bero a Euristeo, lo ricondusse nell’Ade.

[1] Via di purificazione come quella massonica, dove Ercole presiede al seggio del primo sorvegliante e dove «D’altra parte, è detto che, “nella Loggia di san Giovanni, si elevano templi alla virtù e si scavano prigioni per il vizio”; queste due idee d’“elevare” e di “scavare” si riferiscono alle due “dimensioni” verti­cali, altezza e profondità, calcolate secondo le due metà di uno stesso asse che va “dallo Zenith al Nadir”, prese in senso inverso l’una all’altra; queste due direzioni opposte corrispondono rispettivamente a sattwa e a tamas (l’espansione delle due “dimensioni” orizzontali corrisponde a rajas), cioè alle due tendenze dell’essere verso i Cieli (il tempio) e verso gli Inferi (la prigione), tendenze che sono qui “allegorizzate”, piuttosto che simboleggiate, propriamente parlando, dalle nozioni di “virtù” e di “vizio” esattamente come nel mito d’Ercole sopra menzionato» (R. Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Gallimard, Paris, 1962, cap. XXXVII: Le symbolisme solsticial de Janus).

[2] Un’altra allusione al furto del toro di Gerione si trova nell’Inferno della Divina Commedia, canto XXV, 31-33, dove lo stesso viene attribuito a Caco, un centauro mostruoso ucciso a mazzate da Ercole:

«onde cessar le sue opere biece | sotto la mazza d’Ercule, che forse | gliene diè cento, e non sentì le diece.»

[3] Di questa lotta si parla nell’Inferno della Divina Commedia, canto IX, 98-100, citando Cerbero come esempio di chi s’oppone inutilmente e a sue spese al volere divino:

«Che giova ne le fata dar di cozzo? | Cerbero vostro, se ben vi ricorda, | ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo.»

domenica 2 luglio 2017

Tolkien e l'Italia

Nel maggio del 1955 JRR TOLKIEN, l'Autore de Lo Hobbit e del Signore degli Anelli, assieme alla figlia Priscilla, con in mano le bozze dell'ultimo Libro de Il Signore degli Anelli compì un importante viaggio in Italia, che rimase impresso a fondo nelle sue opere narrative. Dalle acque di Venezia alla spiritualità di San Francesco in Assisi, questo Diario inedito illumina le radici culturali e spirituali di un grande successo letterario e cinematografico.

sabato 17 giugno 2017

Codex Gigas o Bibbia del Diavolo

in collaborazione con l'autore Michele Leone

tratto da: http://micheleleone.it/codex-gigas-o-bibbia-del-diavolo/

Codex Gigas: Diavolo, Etimologie e Scongiuri

Il Codex Gigas (codice gigante) detto anche Bibbia del Diavolo, o Libro Nero e in una molteplicità di vari modi deve i suoi due principali appellativi ad un disegno del diavolo a tutta pagina contenuto nel manoscritto ed al suo formato. Il formato del Codex Gigas è impressionate, alto ±890 mm ​​e largo ±490 mm ed ha un peso di circa 75kg. È composto di 310 fogli di pergamena (di pelle d’asino o vitello) alle quali andrebbero aggiunte 8 pagine che si sono perse nei secoli. Il suo formato lo rende probabilmente il più grande manoscritto latino europeo. Il Codex Gigas è chiuso in una copertina di legno ricoperta di pelle e presenta alcuni ornamenti in metallo. Il manoscritto è ricco di Capolettera e miniature, come di alcuni disegni a tutta pagina come il già citato il ritratto del diavolo.  Oggi il testo è conservato nella biblioteca nazionale di Stoccolma.

Cosa contiene il Codex Gigas? In questo volume troviamo una Bibbia (Antico e Testamento), Le antichità giudaiche e La guerra giudaica di Giuseppe Flavio, Le etimologie di Isidoro di Siviglia, alcune formule per scongiuri ed esorcizzare il diavolo, dei libri di medicina, una Storia della Boemia scritta da Cosma di Praga ed un calendario. Dall’indice si può dedurre che nelle pagine mancanti fosse contenuta la regola benedettina, di particolare interesse sono l’immagine a pagina piena della Gerusalemme Celeste e quella del diavolo tra due torri.

Il manoscritto Codex Gigas è stato probabilmente redatto tra il 1204 e il 1230 della nostra era nel piccolo monastero benedettino di Podlažice (Boemia), anche su questo monastero come luogo in cui sia stato redatto esistono dei dubbi, infatti Podlažice all’epoca era troppo piccolo e con insufficienti risorse per poter gestire la creazione di un tale lavoro. A Hermanus monachus inclusus si attribuisce questo lavoro. La leggenda vuole che il monaco abbia stretto un patto con il diavolo per completare questo libro in una sola notte.

giovedì 15 giugno 2017

Druidismo & Cristianesimo: Riflessioni sul tema

di Andrea Romanazzi

Quando iniziai a percorrere il sentiero del Druidismo nell’OBOD, mi soffermai più volte su una affermazione che mi appariva strana: “non importa se sei Buddista, Cristiano, Pagano, etc…” puoi partecipare al corso OBOD...”. Chi si approccia all’inizio del Corso non può capirne il perché…anzi…rimane stupito e si chiede…”ma io sono pagano”…
Invece poi tutto si snoda, durante il cammino la Verità appare attraverso l’Integrazione, il messaggio anche etico del grado Druidico. Ross Nichols affermava che il Druidismo non è tanto una religione ma è piuttosto alla base della spiritualità presente di esse. L’Integrazione è dunque uno dei doni del Corso, la parola chiave del druidismo.
Si tratta però di solo rispetto o c’è qualcosa di più? Può esistere una “fratellanza” spirituale tra il Cristianesimo e il Druidismo?
Secondo Mark Townsend, Matthew Fox e Barbara Erskine e il loro libro  Jesus Through Pagan Eyes: Bridging Neopagan Perspectives, non c’è dubbio. Esaminiamo meglio la questione. Il Druidismo, ma soprattutto il neo-Druidismo non è una via che potremmo definire “pura”, per il semplice motivo che da sempre nessuna Religione o Via Spirituale si è evoluta nell’isolamento ma in qualunque di esse ci sono elementi presi da altre tradizioni. I culti Romani attinsero fortemente a quelli greci ed egiziani, il Buddismo tibetano ha fortissime radici nei culti esoterici del Bon, il Cristianesimo è ricco di tradizioni pagane che ha fortemente fatto proprie. Quale è la “vera e pura” religione? Più indietro andiamo e più troviamo qualche culto precedente a cui quello “nuovo” ha preso in prestito elementi, ovviamente costruendoci attorno rituali e culti che avrebbero da un lato segnato una diversità, dall’altro, spesso, favorito la nuova casta sacerdotale. E’ accaduto nel Cristianesimo come nel mondo egizio. Se così eliminiamo gli orpelli che spesso appesantiscono le religioni “Neo”, Nuove o Antiche, troviamo il nocciolo comune.
Esaminiamo, ad esempio, i due elementi centrali della Cristianità. L’immagine della Vergine Maria è assolutamente uguale a quella di molte dee Greco-Romane, a loro volta simili all’immagine di Iside e Horus. Andando sempre più in dietro troviamo che l’immagine femminile e madriarcale, dalle caratteristiche immortali, e quella del suo Figlio e Compagno, il dio vegetazionale, sono presenti in tutte le cosmogonie e i miti del mondo antico. Il culto del Dio che muore per poter risorgere, simboleggiato dal Cristo, è assolutamente identico alle storie di Attis, Adone, Osiride, Taliesin. A loro volta questi sono questi rivisitazione dei numerosi rituali e miti sciamanici che narrano di rituali di smembramento e della morte, sempre cruenta, del dio, espressione non di una ingiustificata violenza ma, espressione della vita che risorge dalla distruzione da parte dell’uomo dei prodotti dei campi, falciati, battuti e poi ridotti in polvere. Anche l’usanza del cibarsi delle carni e del sangue del dio, mutuata appunto dal Cristianesimo, è antichissima ma non esclusiva.
Quando i primi missionari cristiani scoprirono  in Gallia un gruppo di Celti intenti a venerare una figura femminile nell'atto di dare alla luce un bambino, non tentarono  neppure di modificare le loro concezioni religiose. Si limitavano a spiegare agli indigeni che, senza saperlo, erano già cristiani, e stavano adorando un'immagine della Madonna. Se tutto andava bene, sul luogo sacro veniva costruita una chiesa, e l'idolo pagano, trasferito al suo interno, si trasformava automaticamente in una rappresentazione cristiana e  per giustificare la presenza di figurazioni mariane che, a volte, precedevano la stessa nascita di Maria, i teologi coniarono addirittura un termine "Prefigurazione della Vergine ". Per molti neo-pagani il “vero” culto era quello dei Galli…ma non è questo il culto “primigenio”, a loro volta lo avevano assimilato da ritualistiche e religioni più antiche.
Dunque quale è la Vera Religione? Chi scrive si lascia “ispirare” dalla Natura, espressione di quell’Awen che appartiene a tutti, al di là delle pratiche sacerdotali, quelli si, inventate dagli uomini appannaggio troppo spesso delle caste dominanti.
La terra dei Celti, con la conquista romana, fu presto raggiunta dal Cristianesimo e da quegli “apostoli” che voleva convertire alla Nuova Religione i pagani del nord. In Britannia il Cristianesimo arrivò attorno al 200 d.C., anche se dobbiamo aspettare almeno altri cento anni prima di vederlo radicalizzato sul territorio e trovare Vescovi provenienti da queste terre. Sta di fatto che già nel 360 d.C. Vescovi e Pensatori celti erano diventati eminenti personaggi nelle gerarchie Cristiane. Un esempio può essere Pelagio, pensatore e teologo, amico di sant’Agostino. Egli, permeato da quella cultura che potremmo definire “druidica”, tentò una forte operazione sincretica tentando di piegare il Cristianesimo locale alle più antiche eredità druidiche. Senza entrare nel merito del “pelagismo”, del quale voglio solo sottolineare l’assenza del concetto di “peccato oiginale”, possiamo dire che si avvicinava fortemente ai rituali della chiesa d’Oriente. Ad esempio il Battesimo era esercitato attraverso una completa immersione, retaggio proveniente dagli antichi rituali celtici. Anche il concetto di “trinità”, è stato in qualche modo adattato alla “triplice sacralità” druidica. In quello che potremmo definire, anche se a me non piace ma che rende bene l’idea, “Cristianesimo Celtico” funzione importantissima avevano le Donne. A differenza del Cristianesimo Romano, per cui la donna era peccatrice e soggetto di tentazioni, dunque elemento pericoloso, nell’area britannica, laddove da sempre le donne erano sacerdotesse e/o druidesse, rivestivano un ruolo importantissimo. Pensiamo ad esempio alla badessa del monastero di Kildare, quella che oggi conosciamo come Santa Brigida, una suora missionaria omonima dell’antica Brigid, figlia di Dagda, da sempre venerata dai popoli celti. La leggenda narra che Brigida nacque da una donna mentre trasportava una brocca contenente del latte, particolare importante per il proseguo delle vicende della santa. La bambina infatti aveva la caratteristica di non nutrirsi di cibo comune, ma solo di latte di mucca bianca con le orecchie rosse, animale ricorrente nella mitologia celtica e che appunto ricorda lo stretto legame tra la santa e la dea, sempre rappresentata in compagnia dei suoi magici buoi. Divenuta badessa di Kildare la santa faceva produrre alle vacche del convento grandissime quantità di latte e ceste di burro tanto che in Scozia veniva chiamata “Milkmade Bride”, patrona dei lattai e dei lavoratori caseari. Molto del Druidismo e della Pratica Pagana più in generale è sopravvissuto tra i manoscritti e l’adattamento rituale della Chiesa Cristiana. L’errore comune tra i neopagani odierni è pensare che la loro cultura sia stata cancellata e sradicata dal Cristianesimo, ma questo è fuorviante e spesso basato su una scarsa conoscenza folklorica e delle origini. Il mondo sudamericano ed africano, molto più abituato di quello Occidentale all’accoglimento, non ebbe mai problemi ad assumere i nuovi nomi per non dimenticare i vecchi. Ecco così che divenne facile sovrapporre le divine figure, Cristo sembrava tanto simile ad Oxalà, mentre la Vergine Maria era la perfetta descrizione di Yemanjià. Gli antichi culti animisti africani si rispecchiavano facilmente nel politeismo monoteista cristiano fatto da un dio lontano e da molteplici santi i cui culti, assolutamente personalizzati, li facevano tanto assomigliare agli Antichi Spiriti. Preghiere ed orazioni del resto non venivano utilizzate per ottenere anche aiuti materiali in questa vita? Dunque cosa cambiava se la candela veniva accesa davanti a Oxossì o a Sant’Antonio? Si adoravano così gli antichi dei ma con i nuovi nomi, nulla è mai cambiato per il sudamericano. Gli Orishas, i loro dei, sopravvivevano. Allo stesso modo dovrebbe pensare il “neo”. Questa credo sia una lezione che molte vie neopagane devono ancora apprendere. Ross Nichols già a metà anni novanta lo sottolineava.

venerdì 9 giugno 2017

Il destino del Papa russo. Papa Metodio è il perno del nuovo romanzo di Mauro Mazza. Il futuro della Chiesa di Roma.

tratta da il Giornale, il blog di "Carlo Franza" del 21 maggio 2017

di Carlo Franza

Papi italiani, poi un Papa polacco, poi un Papa tedesco , poi un Papa argentino.  Adesso toccherebbe a un Papa russo   reggere la Chiesa Cattolica Romana. E forse in pieno si svelerebbe quella parte del Segreto di Fatima che vuole la Russia consacrata al Cuore Immacolato di Maria.  Solo dopo questo passaggio  e dopo la resa dell’Islam  schiacciato in più parti del mondo  si potrebbe dare avvio a un periodo di  vera pace.

Sappiamo che a giorni il Papa argentino farà un  Concistorio per l’elezione di nuovi cinque cardinali. La cosa più avveniristica -e non troppo-  è la previsione di un conclave nel 2018; è quanto ipotizza  lo scrittore Mauro Mazza, immagina che questo conclave elegga l’arcivescovo di San Pietroburgo, che assume il nome di Metodio (Il destino del papa russo, Fazi, Roma 2017, p. 256). Mauro Mazza, ex direttore del Tg2, RaiUno e RaiSport, è nato a Roma nel 1955. Ha pubblicato numerosi saggi di letteratura, televisione e cultura politica. Questo è il suo secondo romanzo. Con il primo, L’albero del mondo (Fazi, 2012), ha vinto il premio Acqui Storia.  E torniamo al titolo del romanzo, al Papa russo che ha nome Metodio. Non va dimenticato che  il nome del Papa Metodio si rifà  San Metodio I, detto anche il Confessore o il Grande ( Siracusa 788/800 – Costantinopoli 14 giugno 847), è stato Patriarca di Costantinopoli dal 4 marzo dell’843 al 14 giugno dell’847.

 E badate bene che questo “nuovo”  Papa, a differenza del Papa Argentino  suo predecessore,  non piacerebbe  ai grandi potentati e alla massoneria.  Questo nuovo Papa russo  non piace perché parla concretamente di difesa della Fede,  anziché di  sociale, di migranti, di ecologia e non rincorre sia a  quel vuoto sentimentalismo scandito  dal “buonasera” ,  che a  quel populismo che «aveva annullato ogni specifica differenza tra papa e fedeli, tutto abbracci e scenette, buona domenica e buon pranzo…», quando anche lo stesso Wojtyla «era riuscito a conservare sempre, fino all’ultimo giorno, quel suo carisma che incuteva rispetto e ammirazione in tutti: cardinali, vescovi, preti e laici» (p. 40).

Dopo questo periodo bergogliano , quasi sede vacante con il Papa  Benedetto XVI  rinchiuso nel  monastero vaticano,  ecco che con le sue prediche quotidiane, finalmente Papa  Metodio combatte il modernismo, la deriva laicista e protestante, la dittatura del relativismo: «il Papa, ogni giorno, demoliva molti dei presupposti considerati intangibili del pensiero dominante. Lo faceva così, semplicemente. Conquistava consenso, ma andava accumulando su di sé anche un risentimento diffuso» (p. 145).

Ma fila  tutto liscio, perchè  com’è da aspettarsi l’alta massoneria gli scatena contro la stampa; un giornale tedesco – vicino a certi ambienti progressisti vaticani – lo accusa di essere un accentratore e di parlare troppo di fede: «Cerca di riproporre una sacralità d’altri tempi. Nelle sue prediche contesta i valori laici e i diritti civili conquistati. Come se non bastasse, accentua le tradizionali riserve sulla democrazia. Molto presto l’effetto del suo operato si rivelerà destabilizzante» (p. 147). Romanzo profondo, illuminante, storico, radicato nel nostro tempo,  e l’attacco al nuovo Papa per il suo operato  destabilizzazione  nasce dal fatto che combatte finalmente il mondialismo, la globalizzazione,  il gender, l’arretramento e la paura  di fronte  all’incalzare dell’islam e dell’islamismo, e perfino  l’imposizione dell’ecologia «come nuova religione, l’essere umano non più al vertice della piramide della creazione bensì abitante del pianeta con gli stessi diritti degli “altri” animali» (p. 108).


E  predisposto e consapevole della  consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria e alla riunificazione degli Ortodossi con la Chiesa di Roma,  Papa  Metodio incontra Putin, il quale lamenta. «Gli Inglesi fanno quello che ordinano gli Americani. Tedeschi e Italiani sono oscillanti e instabili» (p. 134).E gli Americani seguono,  in modo mirato e ossequioso , le decisioni della “Fratellanza”, un’organizzazione massonica votata al pensiero unico: «il governo mondiale, la moneta unica (il bancor) e un’unica religione che le riunisca tutte, superandole» (p. 120).

Libro catastrofico eppure illuminante, che dovrebbero leggere tutti i vescovi italiani. Nel romanzo si fa cenno che  tra tanti cardinali manovrabili da parte della “Fratellanza ”, come lo stesso predecessore di Metodio, ce ne sono addirittura tre arruolati tra le sue fila: ecco perché si diffonde anche nella Chiesa una nuova etica cosmica, «un miscuglio di gnosi e new age che basterebbe un minimo di approfondimento non per sconfiggere, ma per ridicolizzare», una visione che ha reso gli esseri umani simile a tutti gli altri animali, ma «con l’aggravante di poter praticare liberamente l’aborto e l’eutanasia» e, lamenta il nuovo Papa  russo Metodio, «perfino alcuni vescovi, per superficialità o perché incredibilmente convinti, pensano che il futuro possa vedere il cattolicesimo mescolato e parificato con altre religioni o con loro assurde parodie» (p. 108).

Il romanzo che pure ha una base di partenza interessante e nuova, carica di profezia e di fede e quindi anche ottimista nell’esemplare il  tragitto  del papato innovativo  che mira a una vera predicazione  del Vangelo,   si avvia  ben presto  ad incorniciare il realismo più crudo  lasciando leggere anche scenari forti, concreti e cupi.   Storia fantastica, romanzo surreale? Non proprio. Il panorama è certo di una storia affascinante, ma si legge dentro anche un mondo ecclesiastico, ovvero una Chiesa  di vescovi e cardinali lontani dalla fede e da Dio, anzi dediti a seguire le leggi e le regole non di Dio ma della “Fratellanza”.

domenica 4 giugno 2017

I droni scoprono un (nuovo) mistero di Tiahuanaco

tratto da il Giornale del 17/05/2017

Gli archeologi hanno trovato in Bolivia due piattaforme sotterrate che apparterebbero a un'antica piramide e che dimostrerebbero come l'insediamento fosse più grande di quanto crediamo oggi

di Giovanni Vasso

Gli scavi a Tiahuanaco, in Bolivia, a quanto pare sono appena iniziati. Una missione archeologica svela che dietro all’antica città precolombiana c’è un tanto altro, e in questo caso c'è tutto un (nuovo) affascinante insediamento ancora da scoprire.

La scoperta è stata fatta grazie alle analisi topografiche e agli elementi raccolti grazie al satellite e al volo di un drone che hanno proceduto alla mappatura dell’area del sito Unesco, che sorge a poco meno di settanta chilometri dalla capitale di La Paz. L’équipe di ricerca guidata dall’archeologo spagnolo José Ignacio Gallegos ha scoperto che nel terreno dove sorge Tiahuanaco c’è ancora tanto da portare alla luce. Nel caso specifico, come riporta il Latin American Herald Tribune, ci sono da disseppellire due piattaforme che potrebbero essere collegabili a una piramide e una grande piazza. E che dimostrerebbero come l'area di Puma Punku nel sito archeologico boliviano non sia (solo) limitata alla presenza di una piramide ma che ci sia stato un vero e proprio insediamento che si estendeva su un'ampiezza di almeno quattordici ettari.

Si ipotizza che sepolte dal terreno e dal tempo vi siano da riportare un tempio e un ingegnoso sistema di canali di irrigazione. Le autorità boliviane avrebbero già manifestato l’intenzione di voler andare fino in fondo a questa storia e di proporre subito degli scavi.

Dallo studio di queste evidenze, gli archeologi potrebbero ricavare materiale interessante per far luce su una delle civiltà più misteriose della storia antica mondiale. La fondazione di Tiahuanaco viene fatta risalire attorno al 1580 avanti Cristo, la fine della città – invece – è datata 1187 dopo Cristo. Il fascino della civiltà scomparsa molto prima dell'arrivo di Colombo e le (poche) notizie certe che si hanno hanno contribuito al fascino del sito archeologico boliviano. Ed è stato forse per questo, per il fascino del mistero ancora tutto da scoprire, che Tihuanaco è diventata una delle suggestioni più forti per i “cacciatori di misteri”.